History influencer a chi?

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Recentemente, dopo che un mio libro è diventato piuttosto noto, mi è capitata questa bizzarra conversazione.
“Filippi ci dica, lei che sta diventando un history influencer…”
“Sto diventando cosa, scusi?”
“Un history influencer, un esperto che utilizza mezzi e linguaggi nuovi per diffondere contenuti di carattere storico…”

Non è facile fare i conti con le etichette che ci vengono assegnate d’ufficio, farli con etichette di cui si ignorava l’esistenza e il significato fino a un momento prima di leggersele addosso è a dir poco complicato.
Che poi io mica lo volevo fare, l’history influencer. Volevo solo mettere nero su bianco un piccolo manuale, un “bignami”, direbbero gli abitanti del mondo analogico, per aiutare le tutor e i tutor di Promemoria_Auschwitz, il viaggio della Memoria ad Auschwitz del Trentino, a destreggiarsi tra le mille domande attorno a una parte scomoda della memoria di questo paese, quella del fascismo.
Con sincero stupore osservo ancora la crescita esponenziale di questo primo progetto culminato nella pubblicazione di “Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo”(Bollati Boringhieri, 2019). Stupore, sì, come quando uno scrive un manuale per l’utilizzo della lavatrice, a pagina 3 raccomanda di non mettere nel cestello animali di piccola taglia e la gente, anziché reagire con un “non ci prenda in giro!” esprime entusiasta la propria gratitudine perché “finalmente qualcuno ce l’ha detto chiaro e tondo, era il terzo cocker che centrifugavo…”.

Verrebbe da chiedersi perché nessuno avesse ancora pensato al cocker, pardon, alle bufale sul fascismo, e perché questo tema abbia suscitato tanto interesse.
Forse è una questione di tempismo? Di confezione editoriale? Oppure di marketing?
Probabilmente un misto di questi tre ingredienti e molto altro ancora, compresa una buona dose di fortuna, ma non basta. C’è dell’altro, a mio modo di vedere.
C’è innanzitutto fame di passato: una società come la nostra, appiattita in un eterno presente di notifiche istantanee da smartphone, ha un bisogno impellente di spazialità e temporalità. Ha bisogno di un passato in cui specchiarsi, per riprendere il controllo del proprio futuro.
Indicativa la reazione di molti lettori e lettrici con cui mi sono confrontato dal vivo e sui social o di cui ho semplicemente letto le recensioni online: “finalmente un libro così!” hanno detto. Strano, perché di titoli sul fascismo in Italia ne escono a tonnellate. Ma è come se una barriera di incomunicabilità dividesse la più estesa, completa, poliedrica e interessante storiografia sul fascismo, quella italiana, dal suo pubblico di riferimento. Un presupposto difficile da accettare, eppure riscontrabile anche in altri contesti di ricerca: basterebbe osservare il conclamato fallimento di una parte della scienza medica nel raccontare la propria realtà durante la crisi pandemica, coi danni pubblici che ben sappiamo, per certificare la distanza tra chi cerca e chi dovrebbe beneficiare delle scoperte.

Per fortuna, lo si deve dire, la conoscenza storica sta trovando sempre nuovi modi per arrivare là dove più è necessaria: star della History TV, youtuber, divulgatori scientifici, autori e autrici di docufilm, serie, fumetti, solo per fare qualche esempio, un intero mondo è in moto da tempo per costruire il ponte necessario tra quella che una volta si sarebbe detta l’accademia (parola brutta) e la massa (parola brutta altrettanto) preservando al contempo il contenuto storico e il contenitore a cui esso si affida. Casi come quello di Yuval Noah Harari, storico reso celebre dal proprio canale YouTube e dal successo mondiale del libro Sapiens, passando per glorie nostrane come Alessandro Barbero, nome che per una buona fetta di italiani è sinonimo di storico e che ha successo in TV, in libreria, su Spotify, su Tik Tok e perfino sulle magliette.

Questa esplosione di nuovi modi di comunicare la storia di certo mostra la difficoltà di un settore, quello della ricerca, nel rimanere in contatto con il mondo per cui, in fondo, dovrebbe lavorare, vale a dire l’insieme della cittadinanza. Ma mostra anche che, nonostante tutto c’è spazio, ci sono possibilità per chi vuole fare formazione di qualità. Senza andare a scomodare le retoriche torri d’avorio o la lezione gramsciana sul ruolo degli intellettuali nella società, forse quello che servirebbe è proprio un punto di raccordo tra la ricerca pura e chi maggiormente dovrebbe trarre beneficio dalla ricerca stessa, vale a dire tutti e tutte noi.
Nel caso degli studi storici, la prima cosa da fare sarebbe sradicare dal proprio alveo di significato la parola divulgazione, che letteralmente significa dare al volgo, la parte meno nobile del popolo, da cui, en passant, deriva “volgare”. Comunicare la conoscenza non è volgare, è necessario.
La seconda cosa da fare potrebbe essere applicare una più rigida metodologia ai modi e ai tempi del comunicare, attraverso esperti ed esperte di settore appositamente formati. Detta semplice, capire come si fa buona divulgazione e insegnarlo a chi si occupa di storia per lavoro. Formare chi fa formazione, educare chi fa educazione
Magari, chissà? Anche attraverso gli scambi che sorgeranno grazie a riviste come questa.

(Aggiornato al 1 aprile 2022)