Historymemers

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Emanuele Curzel, già docente di Storia Medievale, ora docente di Storia del Cristianesimo e delle Chiese all’Università di Trento. Direttore della rivista Studi Trentini.Storia

I memi, cioè l’associazione di un’immagine spesso  “iconica” con una frase, sono parte del linguaggio dei social media, uno strumento per veicolare un concetto nella forma più immediata e “leggera” possibile, solitamente attraverso l’ironia. Ma è possibile usare i memi anche in ambito didattico? Lo abbiamo chiesto al professor Emanuele Curzel, professore di Storia del Cristianesimo e delle Chiese all’Università di Trento e protagonista a riguardo di un interessante progetto.

Come è nata l’idea di usare i memi nel contesto in cui non ci si immaginerebbe di trovarli, cioè l’insegnamento universitario della storia?

A spingermi a riflettere sull’opportunità di inserire i memi nella didattica sono state soprattutto le riflessioni di Francesco Filippi su come i social abbiano avuto e abbiano tuttora un ruolo di primaria importanza nel rafforzare o modificare le convinzioni di un gran numero di persone, con ovvie conseguenze sul piano delle conoscenze diffuse e su quelli sociale e politico. 

Tenevo, durante il lockdown della primavera 2020, due corsi: uno di Storia della regione trentino-tirolese nel medioevo e uno monografico di Storia medievale dedicato ai canonici delle cattedrali.

In entrambi i casi decisi che avrei fatto didattica a distanza in asincrono: io registravo e caricavo audio e slides, gli studenti ascoltavano quando preferivano. In quel contesto iniziai a usare i memi. Inventarsi un meme serviva (nelle mie intenzioni) a far capire qualche passaggio e a far memorizzare in modo semiserio i nuclei delle mie argomentazioni sul tema del corso, aggiungendo al tutto un po’ di ironia. Per farli ho cercato di alternare “sfondi classici” da meme e immagini più pertinenti al corso stesso.

Ho reso poi i miei memi una parte integrante dell’esame: vale a dire che tutti gli studenti, prima di presentarsi, dovevano comunicarmi la classifica dei cinque migliori e dei cinque peggiori tra i trenta che avevo loro proposto; all’esame, una delle domande consisteva proprio nel chiedere loro perché avessero posto in classifica questo o quel meme. La classifica (sia in positivo sia in negativo) era interessante, ed è stata la prima occasione per giudicare il lavoro che stavo facendo.

Ha usato i memi solo come strumento di divulgazione o ha chiesto anche di produrli a studenti e studentesse per verificare la loro comprensione dei temi studiati?

A partire dall’anno accademico 2020-2021 ho tenuto un corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese e agli studenti (una ventina) ho nuovamente proposto dei memi prodotti da me, ma anche, parallelamente, li ho ‘sfidati’ a produrne. Un meme è efficace perché si rivolge non alla generalità, ma a un contesto specifico e potenzialmente chiuso: serve una narrativa comune a un gruppo, e nel nostro caso la narrativa erano i temi delle lezioni. 

Ho indicato l’obiettivo: non si trattava genericamente di far ridere, quanto piuttosto di costruire un prodotto utile per la divulgazione di contenuti storiografici, capace di sintetizzare, di coinvolgere e di aiutare la memoria. Infine, ho messo in guardia dal rischio della banalizzazione dei concetti e ho chiesto di evitare il rafforzamento di pregiudizi errati e di giudizi sommari o stereotipati. Gli studenti  hanno prodotto complessivamente 108 memi.

Finito il corso ho pensato di mettere alla prova i miei memi e i loro in una sorta di concorso. Per scegliere la giuria sono andato a vedere chi aveva commentato/apprezzato i miei memi postati in estate su facebook. La giuria è stata quindi composta di cinque uomini e cinque donne nati/e tra la seconda metà degli anni cinquanta e l’inizio degli anni ottanta, accademici e no. 

Ho mandato loro, indistintamente, 29 memi miei e 70 memi degli studenti; ho chiesto loro di indicarmi i dieci che sembravano loro migliori “in quanto capaci di sintetizzare un’informazione, coinvolgere, incuriosire/divertire e insieme aiutare la memorizzazione di un concetto”. 

Tenendo conto dei pareri di tutti, alla fine nove giudici su dieci hanno visto una classifica corrispondente in buona parte alle proprie scelte. Solo un giudice ha visto una classifica finale decisamente lontana dalle proprie preferenze e si trattava proprio del giudice che, per curriculum, poteva essere considerato il più vicino alla materia del corso e del contest. È purtroppo probabile che qualche luogo comune storiografico abbia in qualche caso indotto gli altri giudici a scegliere argomenti che già conoscevano, presentati in un modo che corrispondeva alle loro attese. In anni seguenti ho infatti previsto che il giudizio venisse dato dagli studenti stessi e le classifiche sono state, secondo me, più equilibrate.

Da queste esperienze di uso dei memi in ambito didattico, quali  considerazioni ha tratto?

Il meme è senza dubbio un mezzo utile ed efficace per veicolare un messaggio: attira l’attenzione, si diffonde con facilità, è pure capace di apportare una componente critica che può essere considerata parte integrante dell’insegnamento universitario. Ma da quando Marshall McLuhan ci ha insegnato che il veicolo condiziona ciò che si vuole trasportare, non possiamo far finta di non sapere che basta un attimo per trovarci presi dal maelstrom della banalizzazione di quegli stessi contenuti che avremmo invece voluto mantenere nella loro serietà e complessità.

Resto convinto che il meme debba servire la narrazione storiografica e non essere invece lo strumento della sua destrutturazione gratuita, come se si dovesse per forza ridere della storia. Un po’ di ironia può servire: ma con la storia, alla fin fine, non si scherza. 

(Aggiornato al 22 febbraio 2024)