La notizia è rimbalzata subito sul gruppo WhatsApp della redazione: Liliana Segre invita Chiara Ferragni a visitare il Memoriale della Shoah a Milano. Tra entusiasti e scettici si apre un dibattito: c’è chi non si capacita di questo passaggio dai testimoni ai “testimonial” come responsabili della memoria, chi di fronte alla crisi dei musei pensa che valga tutto, soprattutto una comunicazione più efficace e informale, chi infine cita le tante forme assunte dai musei nel Novecento, come scrigno di collezioni nazionali, cattedrali futuristiche, luogo di storytelling (eh sì, andava detta almeno una volta questa parola!), e infine spazi diffusi, digitali, interattivi, e così via. Poi, ad alimentare ulteriormente le nostre riflessioni, è arrivata la nuova definizione di museo elaborata da ICOM – International Council of Museums:
“Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”.
Così ci siamo chiesti che cosa devono fare i musei per attirare più gente, come possono provare a essere più stimolanti, originali, vissuti. In una parola, popolari. Per questo siamo andati a Mestre, dove abbiamo incontrato Luca Molinari, direttore di M9 – Museo del ‘900: ci ha parlato di cosa funziona (e cosa meno) nel “suo” museo, del pubblico a cui prova a rivolgersi e delle sfide che attendono un luogo così tecnologico e digitale.
Il suo è un punto di vista che abbiamo messo in dialogo con chi, pur frequentando i musei, fa un altro mestiere culturale. L’attore e drammaturgo Ascanio Celestini sta portando in giro per l’Italia lo spettacolo Museo Pasolini, dove si avventura in una visita guidata in un museo che non c’è, se non nella mente di chi lo racconta e di chi lo ascolta. Eppure, anche lui ha saputo ragionare sui migliori pezzi della collezione, sulle aspettative (attese o disattese) del pubblico, sul senso di uno spazio (quello museale) dove la cultura è ancora di tutti e tutte, molto più di quanto non avvenga oggi a teatro.
Non mancano le riflessioni su spazi di recente apertura, come lo Humboldt Forum di Berlino, museo complesso e dibattuto coi suoi 16.000 metri quadrati e 20.000 oggetti, e l’esperienza di Ruraliă, il museo temporaneo di sapere e memorie a Cison di Valmarino (Treviso). Due esempi molto diversi che vanno però nella stessa direzione: quella di capire come stia davvero cambiando il ruolo dei musei nelle società contemporanee. Uno degli aspetti più vistosi di questo cambiamento è la comunicazione. Come ci suggeriscono Maria Elena Colombo, consulente di comunicazione digitale, con i tanti spunti sui musei che hanno saputo sfruttare la vetrina del web e Silvio Salvo, social media manager della Fondazione Sandretto e deus ex machina di meme e post che hanno fatto lievitare i follower su Instagram grazie a un linguaggio davvero poco istituzionale.
Ci siamo concessi, infine, di giocare un po’ con le immagini. Quelle di undici scene da film in cui lo spazio museale è protagonista assoluto, compresa la più famosa della corsa a perdifiato nelle sale del Louvre. E quelle scattate al museo mentre è intento a essere qualcos’altro. Tipo? Un supermercato, il palcoscenico per un’opera, una camera da letto. Perché come afferma John Kinard “la popolazione parla e discute, il museo è l’orecchio che ascolta”; speriamo che si stia sintonizzando sui nostri nuovi gusti.
(Aggiornato al 17 novembre 2022)