All’ultimo Salone del Libro, il giornalista Ben Smith ha presentato il suo libro Traffic (Altrecose, 2024) sui più importanti progetti giornalistici digitali e sulle storie di chi li ha creati. Alla consueta domanda sul consiglio ai giovani che vogliono diventare giornalisti, la risposta del fondatore di Buzzfeed News e di Semafor è stata: “cercate di fare scoop”. Ovvero cercate di arrivare prima degli altri sulle notizie, magari di ottenerle in esclusiva, di inseguire sempre caparbiamente la verità in un caso. I colpi giornalistici – forma di notizia che ha cadenzato la storia del giornalismo internazionale – sono il tema di questo numero di History Lab Magazine, quello che vi accompagnerà anche sotto l’ombrellone. Non parliamo però di scoop sensazionalistici della serie “lei che bacia lui che bacia lei che bacia me” né dei cosiddetti “gialli dell’estate” che spesso occupano più pagine del dovuto in assenza delle beghe della politica. Ci occupiamo piuttosto di casi in cui la notizia non sarebbe uscita senza il lavoro di scavo investigativo di reporter e redazioni appassionate e di storie in cui gli elementi sono già tutti sul tavolo ma c’è qualcuno/a che unisce i puntini per primo/a coniando nuovi termini e fornendo nuovi sguardi (Jay Rosen li chiama rispettivamente “scoop impresa” e “scoop concettuale”; qui la tipologia per intero: Five Types of Scoops | Jay Rosen: Public Notebook (wordpress.com)). Che impatto hanno avuto queste storie sull’opinione pubblica? Quali protagonisti hanno facilitato/ostacolato la verità? A che prezzo alla fine è stata svelata? E come vengono ricordati a distanza di anni quegli eventi?
A inseguire questi scoop non sono aspiranti giornalisti e giornaliste bensì aspiranti storici e storiche: gli studenti e le studentesse del corso di Laurea in Scienze storiche e orientalistiche dell’Università di Bologna. Il numero che avete davanti agli occhi infatti è il frutto di un esperimento didattico in cui crediamo molto e che speriamo di poter replicare anche in futuro. Abbiamo raccontato il nostro lavoro di redazione in un’aula universitaria e abbiamo poi lanciato la sfida di confezionare un numero insieme, discutendo in classe il taglio da dare al numero, confrontandoci sull’argomento di ogni pezzo e sui nomi per le interviste, restituendo i nostri feedback e consigli (per saperne di più sull’esperienza rimandiamo alla rubrica “Didatticare” firmata da Davide Leveghi). È stato a tratti complesso, soprattutto “prenderci le misure” con tempi brevi e a distanza, sicuramente stimolante. Anche perché un tema di questo tipo, a cavallo tra storia, giornalismo e potere, non l’avevamo ancora trattato. E il merito va innanzitutto al professor Mirko Dondi che l’ha scelto come tema del suo corso di Storia e analisi delle comunicazioni di massa e che qui lo affronta in una panoramica che cuce i diversi casi sulla base delle loro caratteristiche comuni o mettendone in evidenza le profonde asimmetrie.
Ogni pezzo tratta un singolo caso giornalistico ma apre anche lo sguardo a una complessità d’insieme. I “Punti di vista” sono stati affidati a Lorenzo Pregliasco e Vincenzo Lavenia, intervistati da due coppie di lavoro (Omar Amato e Benedetta Taddeo, Michele Soavi e Angelo Donato Gambino): i due docenti e divulgatori partono da inchieste dai nomi “parlanti” come Mani pulite e Spotlight per riflettere sulla spettacolarizzazione mediatica dei rispettivi protagonisti, sulle differenze del racconto giornalistico nei diversi media, sull’esistenza di casi internazionali simili. È invece un insider della notizia Barbara Schiavulli che, sentita da Edoardo Angeli per “Un caffè con…”, ci accompagna sulla scena dei conflitti contemporanei mostrandoci il valore ultimo del giornalismo di guerra.
Scorrendo la home del numero molti casi suoneranno familiari per l’eco che hanno avuto e continuano ad avere nella cultura popolare e nella memoria collettiva: come lo scandalo Watergate che Andrea Pedicone racconta attraverso il linguaggio cinematografico; la strage di Ustica protagonista di un allestimento suggestivo, tra arte e denuncia, visitato da Federico Tori; la tragedia del Vajont che Michele D’Andrea rimette in ordine dall’apertura del cantiere della diga allora più grande al mondo fino al monologo civile firmato da Marco Paolini. Anche andando più indietro nel tempo, se pensiamo a un caso come l’Affaire Dreyfus, magari non ne ricordiamo esattamente i contorni ma sicuramente ci risuona il famoso testo J’Accuse…! dello scrittore Émile Zola, che non a caso Alice Sibilio ha scelto come uno dei tasselli fotografici della sua Gallery. Altri casi invece potrebbero risultare meno noti o comunque meno immediatamente riconducibili alla categoria del giornalismo d’inchiesta: Matteo Morsilli ha scelto un cold case all’italiana – la morte di Wilma Montesi nell’Italia dei primi anni cinquanta – per mostrare un mood tipico dell’opinione pubblica divisa tra innocentismo e colpevolismo, mentre Marina Benavides Fernández offre uno sguardo inedito sulla strage di Atocha del 2004 nella Spagna governata da José María Aznar, e riflette su come una fake news confezionata nelle stanze dei bottoni del potere politico possa ancora incidere sulla memoria pubblica a vent’anni dall’attentato.
Di verità, come dimostrano i casi trattati, non è facile comunque parlare… alle ragazze e ai ragazzi della nostra redazione temporanea va il merito di aver mostrato quanto tortuosa, difficile e spesso dolorosa sia la via per riuscire a raggiungerla.
(Aggiornato al 4 luglio 2024)