Ammettiamolo, visto che siamo tra noi: è capitato a tutti, o quantomeno a molti, di farlo, almeno una volta nella vita. Di leggere il mondo attraverso le lenti esclusive della cultura dominante, quella di noi maschi.
È capitato, ammettiamolo: di pensare “ma come ha parcheggiato, questa?” osservando un’auto a cavallo delle righe e dando per scontato che fosse una donna l’autrice del misfatto.

È capitato di mettersi a spiegare con condiscendenza ad amiche, compagne, conoscenti concetti che presumevamo non avessero colto, perché riguardanti “cose da maschi” (sport, meccanica, finanza, ecc…).
È capitato di dire, o anche solo pensare, che il nervosismo della collega fosse dovuto al fatto che “avesse le sue cose”, perifrasi imbarazzante per il ciclo mestruale, parte di una fisicità considerata ancora come impura, in qualche modo, e menomante.

È capitato a tutti quelli che oggi vengono definiti maschi cisgender di applicare i cliché di una narrazione patriarcale plurimillenaria alla vita di tutti i giorni, compiendo quel subdolo atto di ricostruzione identitaria che scivola, battuta dopo preconcetto, nella costruzione di una superiorità de facto di un sesso rispetto agli altri. Perché?
Perché aderire più o meno consciamente a questo universo di senso costruito con sapienza nel corso dei secoli è comodo, e maledettamente rassicurante.
Il mondo che infatti ancora oggi si apparecchia di fronte agli uomini che si confrontano coi costrutti sociali dominanti è stato modellato per essere, stabilmente, un “mondo per maschi”. Ed è bello vivere in un mondo che è pensato per te. Bello è salire su un vagone i cui scalini d’entrata abbiano la misura media della tua falcata, uomo medio di un metro e settantacinque circa. Se poi si vede arrancare tra le alzate un individuo femminile, alto in media meno della media tua, tanto meglio: sarà un’occasione per un gesto di galanteria, come si dice, che nell’aiuto sancirà la superiorità fisica del maschio, creando magari un’occasione di approccio (che si sa, “l’uomo è cacciatore…”) se l’avvenenza dell’aiutata lo suggerisce.
È bello poter affrontare il mondo del lavoro sapendo di essere il “lavoratore tipo” a cui si riferiscono le principali posizioni, e sapendo inoltre che a parità di mansione e preparazione ci si vedrà corrispondere uno stipendio dal 15 al 30% superiore rispetto a metà dei tuoi potenziali concorrenti, le donne.

Il sistema di coercizione patriarcale tuttora attivo in quasi tutte le società umane ha degli indubbi vantaggi per la categoria che è nato per favorire, noi maschi. E lo fa, ancora, in modo decisamente efficiente. È questo il maggiore degli ostacoli alla sua possibile demolizione: il fatto che a noi maschi questo stato di cose, conscio o meno, sta bene. Fino a quando al vertice delle nostre società rimarranno saldamente gli appartenenti alla mia tribù, quella dei maschi, potrò star certo che questo mio privilegio non sarà scalfito. Un privilegio che in realtà è solidissimo proprio perché mimetico, nel senso che io, che ne sono soggetto, non lo sento come tale.
Infatti l’intero mondo narrativo in cui nasco e in cui vivo immerso lavora costantemente per far apparire il mondo attorno a me ovvio, o, peggio, naturale. Naturale è parola artificiosa ma dal peso specifico enorme: sancisce col peso di una presunta irreversibilità biologica il mio, proprio mio, compito di essere la misura di tutte le cose, sottintendendo che ciò che devia dalla visione del mondo a cui appartengo non sia “normale”. Lo si nota da molti segnali, su tutti lo stupore misto a incomprensione, ad esempio. Il mio stupore misto a incomprensione di bambino degli anni ottanta che vide per la prima volta una donna (sic!) alla guida di autobus o camion. Nel mio mondo di maschietto, attività complessa e mista di approccio meccanico e capacità domatorie di grandi bestie, assoluto appannaggio maschile: tutti maschi sono i camionisti di On the road di Kerouac e tutti maschi i còrnac, conduttori di elefanti dei libri di Salgari. Che un donna guidasse il Sette era cosa, prima ancora che strana, innaturale.
Elucubrazioni di bimbo che però accompagnano anche ora la descrizione del mio mondo maschile, rimasto il mondo per eccellenza: ancora oggi le pubblicità dei SUV, moderni pachidermi stradali privati, vedono alla guida per lo più maschi; così come i guidatori in réclame di auto sportive, saldamente domate da testosteronici guidatori. Al resto del mondo, le donne, vengono lasciate solitamente auto piccole (leggi facili da parcheggiare) o “utili”.
Un intero apparato iconografico è messo al servizio di uno strano processo: rendere invisibile, perché onnipresente e ovvia, la superiorità maschile.
E non solo gli occhi lavorano per questo apartheid di fatto, ma un po’ tutti i sensi: gli orecchi ascoltano lingue sessualizzate, esistono profumi da uomo e da donna, che inchiodano anche il naso alle proprie responsabilità, e gusti più marcati, di sicura competenza, almeno immaginaria, del popolo maschile.
Sono sessualizzate perfino le emozioni, perché piangere è ancora appannaggio della sfera femminile (Boys don’t cry, ammettevano i The Cure) mentre il coraggio è “virile”, tanto che una donna coraggiosa diventa addirittura una “donna con le palle”.
Il mondo in cui siamo immersi noi maschi è ancora immensamente più comodo di quello di chi non appartiene alla nostra categoria. Se dovessimo seguire la paradossale riflessione che accompagna da secoli il patriarcato oseremmo dire che è “naturale” per noi maschi essere “maschilisti”. Ed è questa l’enorme sfida che compete oggi alla categoria a cui apparteniamo, quella di riuscire a spezzare l’incantesimo del pensarsi sola misura del mondo, di uscire da questa solidissima comfort zone e affrontare la realtà di un confronto che dovremmo portare avanti senza i vantaggi di una narrativa millenaria. Ben vengano i mille modi messi in campo oggi per parlare a noi maschi dell’alterità, per vederla come una risorsa oltre che un atto di giustizia.
Non sarà facile, è bello vivere in un mondo su misura, ma potrebbe essere bello anche vivere in un mondo che può plasmarsi anche attorno alla metà della popolazione mondiale (qualcosa di più) che finora ha fatto da quinta al nostro esibirci nel mondo. Un atto necessario alla costruzione di una società più giusta perché, questa sì, più naturale.
Ci vorrà coraggio, anzi, come si sarebbe detto in uno stucchevole western anni Settanta, dovremo “essere uomini”.
(Aggiornato all’8 marzo 2023)