L’autoironia, si sa, non è caratteristica di cui siano ricche le dittature.
Il fascismo italiano, così attento, per primo, a mantenere sotto controllo ogni aspetto della vita pubblica e privata dei propri sudditi, ha per tutta la durata del regime un rapporto a dir poco conflittuale con il tema del riso. Il movimento mussoliniano, infatti, nasce alla fine della prima guerra mondiale anche accaparrandosi l’eredità di quella “trincerocrazia” militare che sotto le bombe declamava di “ridere in faccia alla morte!” con toni e battute futuriste. Le ardite imprese portate avanti contro il nemico vengono chiamate “beffe”, riconoscendo nell’atto eroico anche una sorta di scherno nei confronti della potenza avversaria. Una vena di sarcasmo che accompagna anche le prime mosse del fascismo partito, con le brucianti battute contro gli avversari politici che accompagnano i pestaggi davanti alle fabbriche e l’adozione di punizioni brutali ma contemporaneamente “ridicole” nei confronti degli oppositori: l’olio di ricino, classico metodo punitivo fascista, riduce la vittima a uno stato pietoso di impotenza; il nemico viene degradato a persona che non riesce a trattenere i propri bisogni corporali, un individuo da esporre alla pubblica vergogna, e di cui, appunto, ridere.
Le cose ovviamente cambiano quando il fascismo raggiunge il potere: il riso che è servito a scardinare il precedente sistema ora viene messo sotto controllo e bandito. Governare, dirà “Lui”, è una cosa seria!
Per questo se volessimo fare la storia del riso durante il periodo fascista ci troveremmo di fronte al continuo, occhiuto controllo della censura. Del duce non si ride mai pubblicamente, e quando negli anni trenta riviste satiriche come il Marc’Aurelio o Bertoldo si permettono di ironizzare sui vari gerarchi o su specifici aspetti del regime, il loro modo di “prendere in giro” l’establishment è visto da molti come un termometro per misurare l’effettivo potere dei singoli ras del fascismo: la satira fascista a livello politico se la prende per lo più con chi sta uscendo dalle grazie di Mussolini o con gli atteggiamenti più imbarazzanti dei deliri di onnipotenza dei gerarchi.
Insomma, un Ventennio in cui sembra proprio esserci poco da ridere.
Probabilmente è anche per questo che con la caduta del regime e soprattutto la fine della guerra si assiste a una vera e propria esplosione di satira sul fascismo defunto che prende corpo maggiormente attraverso il grande strumento di racconto pubblico dell’Italia del dopoguerra: il cinema.
Come persi la guerra, film del 1947 con protagonista Macario, oltre a essere uno dei film che segnano l’inizio della stagione neorealista in Italia, è una pellicola carica di amara ironia che racconta in maniera trasognata le vicende del decennio guerresco fascista (dalla guerra d’Etiopia alla Resistenza) attraverso gli occhi di un povero soldato sballottato in maniera più o meno inconscia da un fronte all’altro. Un effetto comico assicurato ma che getta le basi per l’immagine dell’italiano inconsapevole e quindi incolpevole.
Si ride del fascismo nell’Italia del dopoguerra proprio per marcarne la distanza dal Paese. Un regime “da operetta”, tragico nei suoi risvolti ma non serio, raffazzonato. In una terra in cui trionfa la retorica di Don Camillo e Peppone il passato fascista viene derubricato a parentesi di cui si può più ridere che preoccuparsi.
Gli anni sessanta in questo sono il trionfo di una nuova lettura del passato fascista: Il federale del 1961 con Ugo Tognazzi presenta il fascista medio come un personaggio grottesco, ottuso, incapace di andare al di là della stessa propaganda di regime e che si dà un tono scimmiottando gli atteggiamenti caratteristici della parlata e della mimica mussoliniana. L’anno prima, il 1960, arriva finalmente anche in Italia, sebbene pesantemente censurato, Il grande dittatore di Charlie Chaplin, in cui la figura di Mussolini è messa in ridicolo dalla sua caricatura che già dal nome, “Bonito Napoloni”, (Benzino Napaloni nell’originale inglese), dà al pubblico italiano l’idea di un duce, e quindi anche di un regime, fanfarone e vanaglorioso.
Nel 1962 Gli anni ruggenti con Nino Manfredi ironizza sulle ruberie e la dilagante corruzione del fascismo di provincia, contribuendo a cementare l’idea di un fallimento del fascismo come sistema, dimenticandone però gli aspetti repressivi e brutali.
Un’idea che negli anni settanta viene rimarcata dal fascismo ridicolo raccontato da Fellini in Amarcord (1973), che fa da sfondo a una provincia “provinciale” in cui nulla sembra realmente serio e la caricatura mussoliniana – l’enorme volto composto di fiori- diviene l’esempio di un regime lontano, impalpabile, il cui effetto sulla popolazione locale è dato dalla brutalità degli squadristi. Più una calamità naturale ricorsiva che non una realtà che si sostanzia anche di consenso nell’opinione pubblica.
Gli anni ottanta del riflusso sono anche quelli in cui in generale il fascismo sembra andare meno di moda sul grande e sul piccolo schermo. Quando nel 1991 Mediterraneo di Salvatores parla dell’avventura quasi omerica di un gruppo di soldati italiani su un’isola della Grecia non sembra esserci necessità di affrontare il tema della dittatura e quello che tra tutti sembra il più “fascista” del gruppo, il sergente Lorusso (Diego Abatantuono) è una riproposizione del federale di Tognazzi: ottuso, in difficoltà a cogliere il mondo che cambia, fondamentalmente buono.
Del fascismo insomma si ride in un modo che permette al fascismo stesso di sopravvivere in un immaginario edulcorato. Lontano anni luce dalla serietà brutale che cala sull’orrore nazista (ancora nel 2012 la Frankfurter Allgemeine Zeitung si chiede, facendo la recensione di Er ist wieder da, se sia “lecito” ridere di Hitler), il fascismo italiano consolida quella sua immagine di ridicola pantomima. Il bellissimo Fascisti su Marte (2006) di Corrado Guzzanti non diverge in questo dalla classica rappresentazione del fascismo come “accidente comico” della storia: l’immenso lavoro di cura del linguaggio utilizzato dagli astronauti fascisti mette ancora più in luce la pretesa mussoliniana di creare “l’italiano nuovo” anche a partire dal linguaggio, roboante e marziale. Una scelta che fa sì ridere del regime, ma che a ben vedere ne mette in luce, ironizzandoci su, la capacità comunicativa, il suo carattere di “rivoluzione della comunicazione”.
Dopo gli anni duemila sembra che del fascismo nel nostro Paese, almeno a livello di grande schermo, si rida meno e si rida male: il fiasco nelle sale di pellicole come Sono tornato (2017), remake di Er ist wieder da (2015), un film che cerca di ironizzare sul ritorno di un duce redivivo nella Roma di oggi, è sintomatico del fatto che l’Italia non sembra più trovare accattivante il modo in cui si è riso finora della dittatura fascista.
E intanto a livello di fiction aumentano le produzioni che riprendono spezzoni del passato fascista ponendoli in una luce che pare, a tratti, rivalutativa, come Comandante (2023), film su Salvatore Todaro, sommergibilista della seconda guerra mondiale, o Dino Grandi (2024) serie RAI ispirata al gerarca fascista. Prodotti che non ridono del passato fascista ma che anzi, in qualche modo, tendono a normalizzarlo. Una tendenza che denota un cambiamento di paradigma, e su cui forse non c’è nulla da ridere.
(Aggiornato al 22 febbraio 2024)