Il Museo per la memoria di Ustica si trova a Bologna, poco fuori dal centro storico, in un capannone che una volta era adibito a stalla per i cavalli che trainavano i tram. Inaugurato nel 2007, ospita un’installazione dell’artista francese Christian Boltanski. Il protagonista dell’opera è il relitto del DC-9 Itavia, abbattuto la sera del 27 giugno 1980 “all’interno di un episodio di guerra aerea, guerra di fatto e non dichiarata”. Sono le parole della Sentenza-ordinanza del 1999 del giudice Rosario Priore che rinvia a giudizio il comportamento tenuto da uomini delle istituzioni, dell’Aeronautica Militare italiana, per aver cercato di nascondere la verità, occultando e distruggendo prove o depistando le indagini. Il velivolo è stato ricostruito unendo col fil di ferro i pezzi ripescati dal mare, ed è circondato da una asserella che permette di girare attorno alla carcassa. Lungo la passerella si trovano 81 specchi neri con dietro altrettanti altoparlanti che diffondono frasi sussurrate. Al soffitto sono appese 81 lampadine, il cui livello di luce cresce e cala lentamente senza mai spegnersi del tutto. Attorno al relitto, nove casse nere contengono gli oggetti personali delle vittime della strage, anch’essi recuperati dal mar Tirreno. Prima di trovare una collocazione definitiva dentro le casse ed essere nascosti all’occhio del pubblico, tutti gli oggetti sono stati fotografati singolarmente. Gli scatti in bianco e nero sono raccolti in un libretto, “Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri del volo IH 870”, che si può acquistare nell’atrio del museo.
Sono sempre stato molto colpito da questo luogo, fin dalla prima volta che l’ho visitato. Entrarci è un’esperienza emotivamente molto forte: si passa dalla tristezza che nasce dal pensiero delle vittime alla rabbia verso chi ha cercato di evitare che la verità venisse a galla, fino alla consapevolezza di quanto sia importante fare memoria per evitare che una cosa simile possa accadere nuovamente. Ciò che più mi stupisce, però, è il contrasto con l’ambiente esterno: la quiete che c’è dentro al capannone, rotta solo dai mormorii che escono dagli specchi, è quasi irreale; sembra di trovarsi ancora in fondo al mare. Proprio per la fascinazione che questo spazio ha sempre esercitato su di me, ho deciso di intervistare la presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Daria Bonfietti, ormai diventata un simbolo della fatica che in tutti questi anni è stata fatta per ricercare la verità sul disastro. “Non mi pesa essere riconosciuta come un simbolo”, mi dice quando ci incontriamo, “è importante far capire che le cose si possono fare: basta avere dei principi e dei valori”. Mi racconta come è nata l’idea del museo: “Una volta terminati gli accertamenti sulle vere cause della caduta dell’aereo volevamo che quel relitto non andasse ‘disperso’ di nuovo, e abbiamo pensato di portarlo dall’hangar di Pratica di Mare, dove si erano svolte le analisi dei periti, a Bologna, dove abbiamo chiesto alle Istituzioni nazionali e locali di far nascere il Museo per la Memoria di Ustica. A me piace l’arte e conoscevo già l’opera di Boltanski, così nel 2005 lo abbiamo voluto incontrare. Era a Reggio Emilia, al Teatro Valli, con una sua installazione e gli abbiamo chiesto se volesse aiutarci a fare memoria della tragica vicenda della caduta di un aereo civile in tempo di pace”.
Siamo seduti su due poltrone che si trovano lungo un lato della passerella che costeggia il simulacro del DC-9. “Per me il museo è un luogo sacro e doloroso assieme, non posso non ricordare sempre che quelle pareti sono l’ultima cosa che gli occhi delle 81 vittime hanno visto, ignare di ciò che stava per succedere loro”. Poi mi spiega il significato di alcuni elementi di questo luogo in cui “l’arte aiuta a trasmettere memoria”: “Lo scopo è stato ricordare l’evento in sé, ma anche i comportamenti di alcuni uomini delle nostre istituzioni e nel contempo la fatica della verità e la lunga battaglia per capire cosa successe quella notte nei nostri cieli”. Cerco conferma del fatto che la mancanza di riferimenti ai nomi delle vittime all’interno dell’opera sia stata in realtà una scelta: “È stata una decisione condivisa anche da Boltanski. Ha voluto vedere l’elenco delle vittime, ma ciò che l’opera intende rappresentare è la casualità della vita e anche della morte. I pensieri che escono dagli altoparlanti, che abbiamo tradotto dal francese ma che sono stati pensati dall’artista, sono frasi comuni, che ciascuno di noi poteva pensare, e le lampadine sono l’espressione dei cuori, dice Boltanski: i loro si sono spenti, ma i nostri battono ancora, per questo le lampadine non si spengono mai”. Mentre parliamo continuo a sentire in sottofondo quei pensieri che provengono dai muri: “Appena arrivo mi tuffo in mare”, “Spero che i lavori al tetto siano finiti”, “Che palle che è andato male l’esame, devo rifarlo in settembre”. Chiedo alla presidente se col passare del tempo, quando meno persone si ricorderanno della strage di Ustica, il messaggio dell’opera cambierà, e risponde convintamente che no, “resterà sempre la stessa domanda di fondo: ma come è potuto succedere?”.
Il museo è molto attivo anche a livello didattico: sempre più classi delle scuole medie e superiori vengono a visitarlo, anche da fuori provincia, oltre a turisti provenienti da tutto il mondo. È la stessa Bonfietti che a volte conduce le visite guidate, e quindi mi interessa sapere, da lei che è stata insegnante, cosa vuol dire tornare a ricoprire un compito simile. “Ho insegnato economia e diritto, e come professoressa ho sempre cercato di dare ai giovani un’idea corretta delle istituzioni, perché il loro ruolo, come quello dei singoli, è importante in una società. Nel raccontare a chi viene al museo ciò che è potuto succedere nel nostro Paese, facendo storia, dobbiamo liberarci da alcuni luoghi comuni: nelle istituzioni ci stanno uomini e donne giusti, corretti, leali, a fianco, purtroppo anche di molti non corretti, non leali. Da cittadina, però, devo pretendere che gli uomini delle ‘mie’ istituzioni facciano il loro dovere”. Che alla presidente Bonfietti stiano ancora a cuore le nuove generazioni mi pare comunque evidente mentre ci salutiamo: dall’altra parte del vetro della porta d’ingresso del museo una bambina si mette a fissarci, e lei subito si abbassa e le rivolge un sorriso.
Come ultima cosa le chiedo degli eventi che dalla fine degli anni Novanta vengono organizzati durante l’estate nel parco della Zucca, antistante al capannone che contiene il relitto dell’aereo: “Quest’anno avremo, fra gli altri, la danza d’autore di Virgilio Sieni, che per costruire il suo spettacolo è partito dalle frasi che i visitatori hanno lasciato scritte sul diario del museo… non so come riuscirà a rappresentarle!”. Mi viene spontaneo concludere che quindi tutto il parco rappresenta più uno spazio d’arte che un museo storico, e la risposta non lascia dubbi: “È assolutamente uno spazio di memoria e d’arte, nel quale appunto si incrociano tanti ambiti, tra cui anche la storia”.
Federico Tori
Nato a Bologna, laureato in storia dell’Italia contemporanea, si occupa principalmente degli anni Sessanta e Settanta. Unisce all’interesse per questa materia una viscerale passione per la musica.
(Aggiornato al 4 luglio 2024)