“Urlare” la rabbia sulle pareti delle celle

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«Maledetta camera e anca/ quelli che / mi a mandato qui che è stato due mostri da Sardagna brusati dala polvere de mortali / [lacuna]omi Rizzot capo /most[r]o di sardagna».
Con queste parole Antonio Rizzot di Sardagna, incarcerato per percosse nel 1833, si esprimeva nei confronti della detenzione a cui era stato condannato. 
Il muro della cella diventava l’unico supporto dove poter “urlare” tutta la propria rabbia, la frustrazione, la paura, i desideri e la nostalgia dei condannati alla prigione, uno spazio grafico che permetteva di esprimersi liberamente. Le «urla senza suono» dei detenuti, secondo l’immagine datane da Leonardo Sciascia e Giuseppe Pitrè (1999), venivano dipinte o incise sui muri attraverso l’utilizzo di carboncini, pennelli o punte acuminate, lasciando un segno tangibile della propria voce, tracciando immagini, preghiere, invocazioni o semplicemente il proprio nome sui muri della cella.

Le scritture carcerarie comprendevano messaggi diversi, alfabetici e non. I detenuti potevano scrivere o incidere il proprio nome, la data di arresto, i mesi di permanenza in carcere, oppure – come Antonio Rizzot di Sardagna – invettive verso i propri accusatori. Ma non solo. Evocativi sono anche i disegni lasciati dai prigionieri: accanto ad astrazioni si possono trovare oggetti materiali (un cesto di frutta, un viso), ciò che si osserva dalle grate della finestra (un paesaggio, la città, una forca) o immagini religiose (una croce, il nome di Dio e di Cristo, i santi). Ricorrente poi è il tema della nave che richiama al desiderio di libertà, di fuga verso orizzonti più ampi, presente non solamente in prigioni in aree costiere o in quelle che prevedevano la condanna alla galera.

Diffusa e continuativa nel tempo, dall’età più antica alla contemporaneità, la pratica del graffito carcerario permette oggi di ricostruire come un determinato ambiente fosse usato – anche per un periodo limitato di tempo – come luogo detentivo o di disciplinamento. Le tracce lasciate dai detenuti diventano quindi una fonte per lo storico che intende ricostruire non solamente le caratteristiche istituzionali e giudiziarie di un determinato contesto, ma diventano anche fonti ricchissime per la ricostruzione e l’analisi degli aspetti sociali e devozionali legati alla detenzione. È dunque possibile osservare come si crei uno strettissimo dialogo tra la traccia lasciata sul muro e la documentazione conservata presso gli archivi di Stato, comunali, privati e diocesani, che permette allo storico di aprirsi ad una nuova prospettiva di indagine. Questa ha però diversi limiti, che una rigorosa analisi storica non può tralasciare di considerare. Da un lato emergono le difficoltà nella ricostruzione dell’individualità dei singoli detenuti. Dall’altra bisogna considerare le caratteristiche effimere delle scritture carcerarie, dovute al metodo e al materiale con cui vengono redatte e dal supporto stesso che può essere più volte intonacato, facendo scomparire parole e disegni di epoche precedenti.

Torniamo, infine, al caso di Antonio Rizzot di Sardagna, che lascia traccia del suo passaggio nella prigione all’interno della Torre della Tromba, a Trento. Il contesto trentino è ricco di esempi di scrittura carceraria, in particolare nella città di Trento (la Torre della Tromba, la Torre Civica o Torre di piazza, le carceri del Castello del Buonconsiglio), a Cles (il Palazzo Assessorile), a Cavalese (Palazzo della Magnifica Comunità della Val di Fiemme) e, in parte, nel Castello di Rovereto (oggi Museo Storico Italiano della Guerra). Sulle loro mura diversi detenuti – donne e uomini, civili e soldati –  incidono, scrivono, disegnano a partire dal XV secolo fino al XX secolo. Le scritture carcerarie trentine si inseriscono nel più ampio contesto italiano: i graffiti ci raccontano di uomini e donne, che ci lasciano un nome, una data, una filastrocca, un grido di invettiva o un disegno. Tracce di un passato detentivo che oggi viene studiato e musealizzato, aprendo al pubblico di specialisti e non la possibilità di rileggere e approfondire la storia della giustizia e dell’istituzione carceraria in Trentino attraverso fonti diverse. Una storia che non è più solo storia delle istituzioni ma che è anche storia sociale e si avvicina sempre di più a quella che oggi viene definita la storia delle emozioni.

Flavia Tudini
Flavia Tudini è ricercatrice post-dottorato presso la Fondazione Bruno Kessler – Istituto Storico Italo-Germanico di Trento con un progetto di ricerca finanziato dalla Fondazione Caritro sul tema Giustizia, società e immagini nel sistema detentivo trentino in età moderna (XVI-XIX sec.). I suoi temi di ricerca si riferiscono alla circolazione di informazioni per il governo dei territori della Monarchia spagnola e alle dinamiche di potere tra la sfera ecclesiastica e quella temporale nel viceregno del Perù tra XVI e XVII secolo. 

(Aggiornato al 28 maggio 2024)