In un racconto dello scrittore Leopold von Sacher-Masoch (nato a Leopoli nel 1836), un gruppo di viaggiatori risale lentamente le falde dei Carpazi orientali, fino a raggiungerne la vetta, la Ciorna Hora. Da lassù, scrive l’autore, si aveva “la stessa vista dell’aquila librata in volo su immense distanze. Da una parte, ondate bionde nell’oceano di grano magiaro, segno delle fatiche umane; dall’altra pascoli vellutati fra colonne nebbiose come il fumo dei roghi e rocce e fiori montani e prati e colori cangianti, promessa d’un paradiso ritrovato. Dalla parte ungherese, riviere e ruscelli simili a serpenti verdi, casupole di minuscoli villaggi come tante navi dove il campanile funge d’albero maestro. Dalla parte della Galizia, file di punti biancastri, rocce simili a segnali indicanti il cammino verso le grandi pianure dell’Asia”. È una visione romantica, bruscamente interrotta dalle parole della guida: “Su, andiamo. È ora di smetterla con i sogni e di scendere nuovamente fra la stirpe di Caino che ci attende”.
Lo sguardo amorevole di Sacher-Masoch (anche nei confronti di chi quelle terre abitava, galiziani, zingari, ebrei, polacchi e ruteni) contrasta radicalmente con quello dei nostri soldati. Nessuna visione, nessun rapimento, nessuna terra promessa. Scaricati in malo modo nelle piccole stazioni del centro della Galizia, dopo sei giorni di viaggio in carri bestiame, il paese si presenta agli occhi sonnolenti dei soldati nei suoi aspetti peggiori: le strade cattive, il fango che lega il passo di marcia (“Tutto fango, fango, fango! Fango nell’acqua, nell’aria, nelle vie, nei prati, nei campi, dappertutto. Sembra anche che la gente sia di fango” scrive Guerrino Botteri), il terreno paludoso, il caldo soffocante, il brutto cielo grigio, e poi l’abbrutimento della popolazione che colpisce per miseria, sporcizia, promiscuità.
Lo sgomento di Angelo Paoli sembra sincero. Aveva lasciato la Val di Non il primo agosto e già il 2 mangiava la «zuppa militare» nel deposito reggimentale di Innsbruck. Esercitazioni e discorsi fino al 14, partenza il 15. Sei giorni dopo è in Galizia:
“il 20 di mattina arriviamo in galizia la sendemmo dal treno facemmo un ora di marcia poi ci anno fermati la in un paesello al vedere quelle galuppe coi tetti di palia io restai stupefatto dopo che si a avuto un po’ di libertà andai di qua e di là per il paese andai anche in alcune case e la c’era la cucina camera da letto e stalla tutto assieme la gente erano come orsi gente molto ignoranti e senza nessun sviluppo io mi spaventai al vedere in che paesi che era arrivato”.
Umberto Artel, giunto anch’egli nei medesimi giorni, annota con evidente insofferenza nel suo diario:
“Paese sudicio quanto mai. Vi si sprofonda in un pantano nero e limacioso, fino sopra alla caviglia. Ovunque impronte di immondizie. Gli abitanti, sporchi e sudici quanto mai, emanano un’acre odore nauseabondo, fanno schifo. Le case fatte di pantano con tetti di paglia. Le donne mezze ignude con le gambe nere e luride. Fino sui seni, esse hanno le stimmate della sporcizia. Dio che orrore. Ci chiediamo fra noi se questi paesi siano Austriaci o barbari”.
Eppure quanto sono generose quelle donne galiziane! Al passaggio delle truppe polverose, si gettano sulla strada con l’acqua e col loro pane nero e vengono ricambiate dal comportamento rabbioso dei soldati che strappano i pani dai grembiuli e le brocche d’acqua dalle mani, mentre gli ufficiali gridano inutilmente di no, che non si beve e non si mangia.
Colpisce nei Trentini un giudizio così aspro, tanto più che anche loro provengono da un paese non privo di miseria e segnato dalla pellagra e da un’alta mortalità infantile. E quanto alla pulizia, anche nel bel Trentino ci si accomodava alla meglio nelle case rurali, divise tra abitazione familiare e stalla, prive di acqua corrente. Ciò che disturba, par di capire, è l’ostentazione della miseria, un diverso grado di pudore, la nudità esibita con noncuranza, l’abbigliamento trasandato.
Ma che sapevano della Galizia, questi nostri soldati? Poco o nulla. La Galizia era lontana, era finis terrae. Scrive il 16 agosto nel suo diario Giacomo Sommavilla: “Siamo alla vigilia della partenza! Dovremo partire e per dove? Per un paese ad ognuno sconosciuto, che nessuno sapeva descriverci né il clima ne il terreno, non i costumi né la temperatura ne il temperamento e condizioni degli abitatori e per di più nessuno sapeva quella lingua”.
Quinto Antonelli
Già responsabile dell’ASP, curatore della collana Scritture di guerra, autore di I dimenticati della Grande guerra. La memoria dei combattenti trentini 1914-1920 (2008), di Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte (2014), insignito del prestigioso Premio internazionale The Bridge, e di Cento anni di Grande guerra. Cerimonie, monumenti, memorie e contromemorie (2018).
(Aggiornato al 24 maggio 2023)