Disabilità, le parole per dirla

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Raymond Queneau, ovvero potere alle parole
Ci sono quei libri che hai letto, magari pensando “oddio, che scatole” che però, ti continuano a venire in mente, anche quando stai riflettendo su qualcosa di apparentemente molto distante dal tema del testo in questione. Per me, uno di questi libri è Esercizi di stile di Raymond Queneau, che non ho letto in francese (non lo conosco) ma nella traduzione di Umberto Eco, il che lo rende un’opera letteraria nell’opera letteraria. Queneau racconta un episodio banalissimo, una vicenda minima che si svolge prima sull’autobus e poi per strada, e inventa novantanove versioni che differiscono per il linguaggio utilizzato. Alcune versioni sono molto vicine all’originale, altre sembrano raccontare una storia totalmente diversa. Ecco, questo libro mi è sempre sembrato un geniale inno al potere del linguaggio: in grado di dimostrare – volontariamente o meno – quanto il come si racconta sia importante tanto quanto il cosa

Vignetta disegnata da Vauro

Gli insulti
“Mongolo”, “mongoloide”, “handicappato”, “handy”, “cerebroleso”. Non nascondiamoci dietro a un dito, la crudezza difficile da sostenere di questo elenco ci mostra quanto le parole della disabilità siano spesso utilizzate per deridere, prendere in giro, insultare. Recentemente ho sentito usare come insulto “sei un 104”, facendo riferimento alla legge 104 del 1992. 
La disabilità, insomma, non è ancora percepita come un aspetto – tra i tanti – della persona, al pari di molti altri, come l’essere giovane o vecchia, alta o bassa, sportiva o sedentaria. Un aspetto che rende più complesso l’accesso alla vita sociale, questo sì, ma per lo più superabile con una qualche forma di supporto. 
Niente di tutto ciò: l’insulto svela una concezione della disabilità come stigma, disgrazia che genera repulsione.

Da handicap a persona con disabilità
Una volta si usavano il termine “handicap” e il corrispettivo “handicappato”. Si tratta di una parola con un’origine particolare. Si legge sul sito Treccani: “La parola è di origine inglese: hand-in-cap (che letteralmente significa “mano nel berretto”) era il nome di un gioco d’azzardo diffuso nel Seicento. Il gioco si basava sul baratto o scambio, tra due giocatori, di due oggetti di diverso valore; il giocatore che offriva l’oggetto che valeva meno doveva aggiungere a questo la somma di denaro necessaria per arrivare al valore dell’altro oggetto, così che lo scambio potesse avvenire alla pari. Da allora, il termine handicap è passato nel linguaggio sportivo internazionale: indica lo svantaggio che viene attribuito in una gara al concorrente che ha maggiori possibilità di successo, per dare a tutti quelli che gareggiano la stessa probabilità di vincere. Così, il risultato della gara non è già scontato in partenza”.
Insomma l’handicap è una sorta di impedimento. A questa parola – che evidenzia l’aspetto materiale e fisico – si preferisce oggi il termine disabilità, che sottende invece una relazione con la società. Una persona non è disabile tout court, ma lo è nel momento in cui non ha accesso alla sfera sociale, o a una certa attività.
Inoltre, si preferisce parlare di persona disabile o persona con disabilità, piuttosto che disabile e basta, per non confondere un aspetto con il soggetto nel suo complesso. 

Cosa dicono le organizzazioni internazionali
Le parole utilizzate in ambito istituzionale, nel definire un regolamento, un atto o una legge, spesso riflettono e cristallizzano un cambio di sensibilità e attenzione sui temi di cui si occupano. 
Nel 1980 l’OMS pubblica la “Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicaps”, ma ancora oltre dieci anni dopo, la già citata legge 104 del 5 febbraio 1992 si intitola “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”.
Nel 2001 sempre l’OMS aggiorna il suo documento e lo intitola “Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute”: l’accento è posto sulla relazione con la sfera sociale e sull’importanza di garantire a tutte e a tutti l’accessibilità.
Nel 2006 infine l’ONU promulga la sua “Convenzione per i diritti delle persone con disabilità”, usando nel titolo inglese l’espressione al plurale  “persons with disabilities”, sottolineando in questo modo sia la centralità delle persone nella loro complessità che la varietà delle diverse situazioni, uscendo così da una visione monolitica e stigmatizzante.

Vignetta di Roba da donne

Né vittime, né eroi, semplicemente persone
In Francia la persona disabile è detta handicapé, in Spagna si usa addirittura il termine minus validos. In Italia invece siamo passati da handicappato, a portatore di handicap, poi disabile, persona disabile, diversamente abile, fino ad arrivare oggi a persona con disabilità. 
Da noi le parole sembrano logorarsi molto in fretta perché la disabilità è talmente connotata negativamente, quale fardello di dolore e di disgrazia, che le parole per indicarla diventano macigni in fretta. 
Và di pari passo la tendenza tutta nostra di considerare le persone con disabilità alternativamente come vittime o eroi: una retorica che le condanna a essere totalmente ed esclusivamente definite dal peso della disabilità. Si annullano così le persone nella loro interezza e pluralità. In questo senso fanno molto bene alla riflessione pubblica personaggi come lo scrittore Iacopo Melio, l’influencer Giulia La Marca o la sportiva Bebe Vio che sui loro social parlano di disabilità (assieme ad altri temi in realtà) inserendola in una narrazione non stereotipata e assolutamente non pietistica.

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Il linguaggio conta
La riflessione sulle parole in questo contesto è particolarmente importante. Perché avere a disposizione un linguaggio corretto – e non “politicamente corretto” cioè poco autentico – ha un suo peso specifico. Le parole infatti veicolano mondi e concetti anche in contesti distanti da quelli in cui sono stati elaborati. Un linguaggio più rispettoso e rispondente alla realtà su questi temi, può influenzare chi con la disabilità non ha a che fare ma che prende quotidianamente decisioni che hanno effetti su chi invece ha una disabilità. Un architetto potrà così progettare luoghi più accessibili; un’insegnante o un operatore culturale programmeranno attività più inclusive; un autista eviterà magari di parcheggiare sul marciapiede. E tutti noi potremmo provare a essere un po’ meno egocentrici. 

(Aggiornato al 15 novembre 2023)