“Si può ridere di tutto, ma non con tutti”.
Una massima che potrebbe far pensare che il riso sia, sostanzialmente, una questione di “luoghi”: luoghi sociali, come determinati gruppi umani, ma anche luoghi fisici, in cui è permesso o meno farsi una bella risata.
Invece, a ben vedere, il ridere, il modo di farlo e le sue conseguenze, è spesso anche una questione di tempi: nella storia non si è riso sempre allo stesso modo, e quasi mai con la stessa intensità.
Prendete il mondo antico: Aristotele, grande appassionato di catalogazioni presunte universali, afferma che il riso è un atto di coesione sociale che, se utilizzato con misura, è funzionale ai rapporti umani. Si ride di ciò che è brutto e di ciò che è abietto, per esorcizzarlo e costruire i confini di quel che è la norma. Una visione determinata, che porterà nei secoli gli epigoni di Aristotele a definire il riso non solo un metro della struttura sociale ma anche, anzi soprattutto, la spia di ciò che da questa struttura esula. Una spia pericolosa.
Rimane famosa la tirata del venerabile Jorge nel film tratto dal romanzo Il nome della Rosa, sulla pericolosità del riso: “verba vana aut risui apta non loqui! […] il riso è un vento diabolico, che deforma il volto e rende gli uomini simili alle scimmie…”.

Un’immagine cupa diffusa in alcuni testi della filosofia scolastica medievale che con maestria Umberto Eco mette in bocca all’anziano monaco benedettino, incarnazione di quell’atmosfera seriosa che dell’età di mezzo diedero in molti, specie a partire dall’età moderna. Ma non è corretto estendere il punto di vista di una certa parte della dottrina teologica cristiana a tutta la variegata società continentale di quel tempo.
In fondo è proprio il Medioevo cristiano che codifica e costruisce il rito del carnevale, vale a dire un momento in cui la norma può essere derisa e infranta a piacimento; in cui anzi deve essere derisa affinché si comprenda la sua importanza. Questo è anche il periodo storico in cui si inventa la figura del giullare, che come racconta il nobel Dario Fo è un necessario fomentatore di riso nei confronti di un’autorità che per sua natura tende a prendersi troppo sul serio. La risata liberatoria infrange l’aura mistica del potere, riportandolo alla sua dimensione tremendamente umana.
Il Medioevo in fondo è proprio il luogo in cui si codifica il modo di ridere che ben conosciamo anche oggi: di fronte all’onnipotenza divina, alla precarietà della vita, alla violenza di una società che sembra sempre sul punto di soccombere a guerre e pestilenze, ridere è un modo estremamente umano di reagire. Nascono grandi poemi canzonatori e satire feroci: nel Roman de Fauvel, un poema in ottosillabi in antico francese, si prende in giro la corte di Filippo il bello di Francia (1268-1314) con tanto di scene ridicole accompagnate da intrattenimento musicale. Si ride nei Carmina Burana (XI-XII sec.) e nelle poesie dei trovatori di mezza Europa; divertenti sono alcuni passaggi dei Canterbury Tales di Chaucer (XIV sec.) così come il Decameron boccaccesco (1349-1351) e chi scrive confessa di aver riso, a distanza di sette secoli, della reazione di Barbariccia, il diavolo che avea del cul fatto trombetta (Inferno, XXI-139) di dantesca memoria.
Che il Medioevo sia un tempo del ridere sembra quindi fuor di dubbio. Un ridere che si sviluppa attraverso le direttrici dell’intrattenimento popolare e della denuncia politica.
Ed è attraverso il riso che i Flugblätter , i fogli volanti che si diffondono nella Germania della Riforma, cercano di demolire l’immagine sacra del potere papale: immagini parodistiche di papi e prelati che arraffano oro e gioielli mentre vengono incalzati dalle alabarde dei lanzichenecchi costituiscono un potente messaggio sovversivo.

Allo stesso modo vengono derisi Lutero e i suoi seguaci dalla macchina propagandistica della Controriforma: gente dedita al bere, alla fornicazione, la cui immagine ribaltata restituisce quella del diavolo.
Ridere esorcizza e normalizza: per questo in molte danze macabre secentesche è l’ironia del contrappasso ad accompagnare gli scheletri che terrorizzano sovrani, prelati e ricchi, accomunati al povero dalla morte e dal suo ghigno sarcastico.
Quando il mondo della comunicazione prende il sopravvento si ride del potere e si ride per il potere: le gazzette settecentesche si riempiono di vignette che deridono il potente in disgrazia e costruiscono quell’idea che un po’ di sberleffi siano un prezzo equo, da pagare, per essere élite. La Rivoluzione francese è il banco di prova per una satira feroce, moderna, che non perdona nessuno. E durante il Terrore giacobino a volte è per una risata di troppo che si va alla ghigliottina.
Più sei potente e più vieni bersagliato, è la regola: per questo di Napoleone si conoscono molte più caricature e battute che non ritratti ufficiali, benché il corso non fosse timido nel farsi rappresentare. Su di lui nascono battute che sopravviveranno e che i vari potenti erediteranno nel corso della storia.
“Napoleone viaggia sulla sua carrozza per le campagne francesi, quando un maiale attraversa la strada e la vettura imperiale lo investe. Desideroso di non farsi odiare dal suo popolo, Napoleone ordina al cocchiere di andare nel vicino casale e risarcire il contadino della perdita dell’animale. Il cocchiere va’ poco dopo torna ricolmo di doni quali formaggi, salumi e bottiglie di vino. Napoleone stupito interroga il cocchiere sul perché sia pieno di tanto ben di Dio, e il cocchiere gli risponde che il contadino ha voluto ringraziarlo. “Perché mai?” chiede l’imperatore, e il cocchiere “non lo so, maestà: sono andato al casale, ho bussato e quando mi ha aperto il contadino ho detto “salve, sono il cocchiere di Napoleone, ho ammazzato il porco…”.”

Una battuta feroce che, per limitarsi all’ambito italiano, in alcune pubblicazioni satiriche si ritrova praticamente uguale con protagonisti Vittorio Emanuele III, Mussolini, De Gasperi e Berlusconi.
Intanto in Francia è ancora vietato, per legge, chiamare Napoleone “maiale”, e il protagonista de La fattoria degli animali di Orwell nelle prime edizioni francesi si chiama César.
Come si diceva, si può ridere di tutto, ma non con tutti.
Il Novecento è il secolo del trionfo della risata di popolo, o almeno così la si vuole intendere. Per questo la risata diventa democratica, e il potere la accetta a denti stretti, leggendola anzi come una sorta di consacrazione del proprio potere. Gli esseri umani cominciano a vedere nel riso un diritto, e la cifra delle dittature sta in quanto permettano ai sudditi di ridere di tutto. Ancora oggi il povero Winnie the Pooh sui media cinesi soffre una strana censura, perché qualcuno ha notato che la sua espressione bonaria e paciosa ricorda un po’ quella del presidente Xi Jinping. Oggi il riso è al centro di un’ulteriore battaglia culturale, combattuta tra chi difende l’idea che si possa ridere sempre di tutto e chi invece nota che ridere di chi è potente è satira, ridere di chi è marginalizzato invece è bullismo.
Ridere di disabilità, svantaggi sociali o situazioni di disagio è o non è lecito, in un mondo, quello occidentale, che continua a identificare il riso come espressione di genuina libertà?
Questa sembra oggi l’ultima frontiera di una lunga evoluzione di un atto estremamente umano, nato per stemperare le tensioni sociali e assurto a simbolo di un certo modo di vivere in comunità.
Domande pesanti, che probabilmente caratterizzeranno gli anni della comunicazione a venire, almeno fino a quando, come pare dicesse Bakunin, “Una risata ci seppellirà”.
(Aggiornato al 22 febbraio 2024)