La scia di sofferenze lasciata dietro di sé dalla prima guerra mondiale è stata oggetto di un’ampia produzione storica che ne ha evidenziato i molteplici aspetti politico-diplomatici, politico-militari, socioeconomici o socioculturali. Ne offrono testimonianza anche le scritture autobiografiche di quanti ne furono osservatori o vittime più o meno consapevoli. Ne è testimone e, al tempo stesso, interprete anche una schiera di artisti armati di semplice matita che contribuirono con le loro vignette, diffuse negli anni del conflitto su giornali e riviste illustrate, a svillaneggiare i contendenti, a ridicolizzare i governi in carica, a denunciare la crudeltà e l’ipocrisia di quanti si adoperavano più per tutelare gli interessi personali e dei gruppi sociali di riferimento che non per esercitare un sincero amor di patria.
Una produzione, quella degli artisti “combattenti”, che sfogliata nel suo insieme, ha tutti i caratteri di una sentenza di condanna senza appello pronunciata nei confronti di una guerra percepita e rappresentata, su entrambi i fronti, come una grande e mostruosa macchina dotata di ingranaggi tali da poter spianare e distruggere sul proprio cammino qualsiasi cosa le si parasse dinanzi, senza necessità di distinguere fra oggetti e persone.
Per capirlo basta sfogliare, solo per fare alcuni esempi, le riviste de L’asino, L’assiette au beurre, La baïonette, Jugend, Kladderadatsch, Le rire rouge, Lustige Blätter, Le mot, Il mulo, Die Muskete, Numero, Simplicissimus o La tradotta, alle quali contribuirono personalità di grande levatura quali Julius Diez, Lyonel Feininger, Golia (Eugenio Colmo), George Grosz, Olaf Gulbransson, Thomas Theodor Heine, Paul Iribe, František Kupka, Nasica (Augusto Majani), Bruno Paul, Antonio Augusto Rubino, Enrico Sacchetti, Filiberto Scarpelli, Hermann Paul, Ratalanga (Gabriele Galantara), Eduard Thöny, Walter Trier ed Erich Wilke (di questa produzione offre un’efficace sintesi la mostra A colpi di matita: la Grande Guerra nella caricatura), a cura di Danilo Curti-Feininger e Rodolfo Taiani (disponibile in versione digitale all’indirizzo https://mostre.museostorico.it/acolpidimatita).
È peraltro l’immediatezza e l’universalità del linguaggio caricaturale a favorire la trasmissione di un messaggio che non ha bisogno di parole per essere comunicato. “Non appena si fiuta nell’aria tanfo di guerra, lezzo di cadaveri, puzzo di botte, le matite dei caricaturisti si ritengono automaticamente mobilitate. La caricatura, infatti, è arma di prima linea, il più importante dei grossi calibri della propaganda in caso di conflitto. Il sistema più efficace per suggestionare, lavare e imbottire i crani, in quanto evita persino la fatica di leggere. Basta guardare”. Così scriveva Gec, al secolo Enrico Gianieri, nel testo di apertura del catalogo della mostra sulla caricatura e la Grande Guerra allestita nel 1968 ad Arezzo in occasione del cinquantenario della fine del primo conflitto mondiale: a riprova, proprio in quella mostra, si potevano ammirare le opere di artisti americani, austriaci, belgi, francesi, inglesi, italiani, olandesi, russi, spagnoli, svedesi e tedeschi, capaci, seppur schierati su fronti opposti, di restituire con comunanza di soluzioni, grande sensibilità e sicuramente intima convinzione, la percezione di come apparissero assurde e inaccettabili le ragioni di un evento di tale forza annientatrice.
Di volta in volta l’energia ironica del loro straordinario talento artistico colpiva militaristi e antimilitaristi, neutralisti e interventisti, guerrafondai e pacifisti, monarchici e socialisti, clericali e anticlericali, capitalisti e borghesi, canaglie e crocerossine, vittime e carnefici, patrioti e traditori e chi più ne ha più ne metta. Il tutto attingendo a un ricco campionario di immagini ed elementi simbolici che strutturavano solidamente la composizione: la morte, la falce, la fame, l’inferno, il denaro, corvi e cornacchie, mucchi di soldi, canaglie, becchini, carnefici, streghe, rovine, cadaveri, crani e ossa, angeli e demoni, regnanti e primi ministri, politici e parlamentari, preti, tormente di neve e raffiche di vento, personaggi delle scritture sacre, bambini, maschere antigas, sottomarini e tanti calci stampati sul fondoschiena di quello o quell’altro personaggio precipitato così nella gogna.
Una caratterizzazione che viene da lontano e che trova alimento nella più ampia storia dell’arte e nello specifico della caricatura, ossia di quella forma espressiva, di solito ritrattistica, che dal XVI secolo ha appreso a distorcere o a esagerare determinate caratteristiche fisiche di un soggetto per suscitare in chi osserva un effetto comico o ironico. L’invenzione della tecnica caricaturale, nel pieno senso del termine, può essere attribuita ad Annibale Carracci (1560-1609), che probabilmente coniò anche il termine “caricatura”. Molti altri importanti artisti del XVII secolo furono brillanti caricaturisti, come ad esempio Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), ma il primo artista a guadagnarsi la vita quasi soltanto con le caricature fu probabilmente Pier Leone Ghezzi (1674-1755) che scelse come bersaglio privilegiato cardinali, principi e politici della Roma della prima metà del Settecento. Dal Cinquecento al Novecento, passando per il Settecento, il passo è lungo, ma sullo sfondo immaginiamo l’agitarsi del desiderio di ridere anche nelle circostanze più tragiche, affinché il riso, anche se “amaro”, renda più lieve la realtà e più facile convivere con le sue inevitabili storture.
(Aggiornato al 22 febbraio 2024)