Sul set polveroso di un castello abbandonato, la troupe lavora freneticamente: il direttore della fotografia e i suoi aiutanti spostano e calibrano fari e faretti, correggono la temperatura del colore sostituendo i filtri, ai tavoli di scena si riempiono nuovamente i bicchieri che devono avere sempre lo stesso livello, si spostano le sedie millimetricamente, mentre la costumista e la truccatrice passano veloci da un attore all’altro ritoccando un colletto fuori posto, un foulard allentato, un naso lucido. Ogni scena ha bisogno di questo lavoro, che può andare avanti anche per un’ora, con il set che prende le sembianze di un caotico formicaio in cui una moltitudine di maestranze si muove tra l’intrico dei cavi elettrici e dei macchinari. Finalmente, tutto è pronto: l’assistente prende il ciak e grida le fatidiche parole: “Motore, azione!”. La scena comincia, ma nessuno parla. Nella lunga attesa preparatoria, infatti, l’attore protagonista ha finito per avere un attacco d’ansia e adesso chiede con gli occhi sgranati alla regia come si chiama il suo personaggio: “dimmi chi sono!” Mentre gli altri due attori, che da copione dovrebbero recitare la parte di un uomo e una donna spaventati a morte dall’entrata in scena di un nazista, stanno beatamente dormendo, seduti sulle sedie con il capo reclinato e, nonostante le urla isteriche della regia, che sfondano i timpani del microfonista, non si riesce a svegliarli.
Questa breve cronaca non racconta un episodio eccezionale. Nella pratica dello slow theatre questa è la normalità.
Ma cos’è lo slow theatre?
Giorgio Strehler, uno dei giganti del teatro italiano, diceva che il suo mestiere era quello di “raccontare storie di altri ad altri”. Forse è in questo bisogno di condividere storie, di farsi intermediari nella loro circolazione, che prende vita il teatro; o almeno quel tipo di teatro che, ancora oggi, non può che essere un’esperienza di comunità.
Quello che noi chiamiamo slow theatre si potrebbe forse definire, prendendo a prestito le parole di Strehler e integrandole, come il tentativo di “raccontare storie di altri ad altri… insieme ad altri!”, intendendo per “altri” quelle persone comuni, estranee al mondo del teatro, chiamate a prendere parte attiva a una produzione culturale. Lo slow theatre risponde quindi a un’esigenza di accessibilità a tutto tondo: accessibile deve essere non solo lo spettacolo teatrale da presentare al pubblico, ma, prima ancora, l’esperienza della costruzione condivisa dello spettacolo.
Nel 2023 da un’esperienza di slow theatre è nata La storia di un buon soldato, una serie televisiva che racconta sia la storia del soldato Švejk, sia le vicissitudini di una compagnia di attori trentini non professionisti, in buona parte utenti dei Centri di Salute Mentale di Cles e Mezzolombardo.
L’idea nasce originariamente dall’esigenza della Fondazione Museo storico del Trentino di raccontare la Campagna di Russia a ottant’anni di distanza (1941-1943). Nelle steppe gelide verso Stalingrado, dove tanti italiani e tanti trentini hanno perso la vita, si smarrisce anche Švejk, nel suo peregrinare insensato. Švejk è un personaggio letterario popolarissimo nell’Europa orientale, inventato dallo scrittore cieco Jaroslav Hašek (Le avventure del buon soldato Švejk nella guerra mondiale, pubblicato tra il 1920 e il 1923) e poi fatto rivivere da Bertolt Brecht in una Praga occupata dai nazisti (Schweyk nella Seconda guerra mondiale, scritto nel 1943 e pubblicato postumo). Švejk è il simbolo di una resistenza pacifica al regime e alla guerra. È un matto, che, senza volerlo, con il suo modo di ragionare e di agire non ordinario, mette in crisi il sistema organizzato e ferreo del Terzo Reich.
Perché, allora, non farlo interpretare a un matto ‘vero’? Perché non provare a far rivivere quei boemi bislacchi e un po’ outsider, che popolano le osterie della Praga descritta da Brecht, da un gruppo di attori eterogeneo, ricco di punti vista alternativi? Lavorare con persone che per molti aspetti sono fragili e insicure comporta rischi e incognite, ma la “diversità” è una grande risorsa in campo culturale e leggere la realtà attraverso uno sguardo inusuale non può che arricchire il lavoro teatrale. Certo, quello del teatro è un “gioco” in cui è facile farsi male, perché la recitazione è un’arte profonda, che attinge direttamente ai sentimenti più intimi, alle ferite non guarite, al non risolto. È importante, quindi, sviluppare una fiducia reciproca tra professionisti e non, stando continuamente in ascolto l’uno dell’altro e imparando attraverso l’esperienza diretta fino a che punto ci si può spingere, senza mai superare determinati limiti. Bisogna adattare il lavoro agli attori “particolari”, ai loro tempi, alle loro idee, al loro modo di comportarsi, addirittura al loro modo di muoversi, anche piegando i testi e le battute a un modo non convenzionale di pensarle e di recitarle. È un lavoro delicato, ma che regala tanta umanità e anche momenti di divertimento.
La storia di un buon soldato racconta tutto questo: non solo le vicende di Švejk, ma anche tutto il backstage di una produzione televisiva slow theatre. Così, il pubblico si ritrova sul set, a vivere le avventure della strana troupe, come quando, nella seconda puntata, assiste alla cronaca in presa diretta della scomparsa dell’attore protagonista, oppure, nella sesta puntata, si scopre a ridere della difficoltà di memorizzazione delle farneticanti battute di Švejk . E, immedesimandosi nelle fatiche di attori che non sono attori, e fra i quali potrebbe benissimo ritrovarsi, arriverà forse a credere che il teatro, la letteratura, la storia possono davvero parlare linguaggi accessibili a tutti/e, e tutti/e possono coinvolgere, senza rinunciare alla propria meravigliosa complessità.
(Aggiornato al 15 novembre 2023)
Elena Galvani e Jacopo Laurino
Dopo alcune esperienze teatrali giovanili, si diplomano all’Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 2003. Nel 2004 fondano Stradanova Slow Theatre radicandosi in Trentino e sviluppando una stabile attività culturale caratterizzata dal coinvolgimento attivo della comunità nella produzione teatrale. Fra le principali produzioni si ricordano Baratti e simile lordura (2004), il Progetto Brecht (2006), il Pioppo nella neve (2007), il Babau (2009), Sacrificio (2013), Il folle volo (2015), L’arte della commedia (2016), la serie TV In viaggio con Adelchi (2020), nonché le dieci edizioni della rassegna estiva di divulgazione letteraria “In viaggio con” della Comunità della Val di Non, dirette dal 2014 al 2023.