“Vivi in prima persona l’intensità delle epiche battaglie della seconda guerra mondiale, combattendo a piedi, a bordo di carri armati, jeep, motociclette e persino di un bombardiere. Collabora con la tua squadra sotto la neve e la pioggia, usando armi storiche come lanciafiamme e mitragliatrici pesanti o richiedendo attacchi d’artiglieria. In guerra, nessuno combatte da solo!”.
Così Activision promuoveva nel 2003 il videogioco Call of duty (COD), il primo di una lunga e fortunata serie di sparatutto di guerra. Negli anni seguenti le ambientazioni si sarebbero ispirate ai principali conflitti contemporanei, dall’Iraq all’Afghanistan. Assieme a Medal of honor: allied assault, prodotto dalla Electronic arts (EA, 2002), Call of duty catapultava il video game player sui principali campi di battaglia della seconda guerra mondiale. Le diverse missioni di Call of duty, articolate su più livelli, passavano dallo sbarco in Normandia alla battaglia di Stalingrado, per concludersi con la conquista di Berlino, il tutto attraverso gli occhi dei soldati alleati.

Medal of honor, caratterizzato da sei missioni e oltre trenta livelli di difficoltà, partiva dal Nord Africa, passava dalla sabbia di Omaha beach durante il D-day (giugno 1944) e terminava in Germania.
Ho trascorso alcune ore della mia giovinezza davanti a questi giochi, del tutto all’oscuro del fatto che mi sarei occupato di storia militare per mestiere. Pur essendo stato un passatempo ludico, ero consapevole del gioco e delle sue implicazioni culturali: in entrambi i casi, sia in Call of duty sia in Medal of honor, era evidente che, nel ricreare missioni, scenari ed esperienze belliche, ideatori e sviluppatori avevano tratto spunto da alcuni celebri e più o meno recenti film di guerra come da fatti bellici realmente accaduti.

Alcune scene virtuali combaciavano perfettamente con frammenti ripresi da Il giorno più lungo (1962) e soprattutto da Salvate il soldato Ryan (1998), dalla serie TV Band of brothers prodotta dalla HBO e da Il nemico alle porte (2001). Le ricostruzioni scenografiche dello sbarco in Normandia e della battaglia di Stalingrado sviluppate nei videogiochi erano l’esatta riproduzione di alcune scene tratte da queste pellicole cinematografiche o si rifacevano in qualche caso a fotografie storiche, come quella che ritrae i soldati sovietici innalzare la bandiera rossa sulle rovine del Reichstag germanico nel maggio 1945.
Pur rimanendo un’esperienza di gioco, gli sviluppatori avevano cercato di riprodurre effetti sonori e visivi particolari del campo di battaglia, la confusione creata dalle esplosioni di granate e bombe d’artiglieria, il fuoco di armi pesanti e mitragliatrici. Addirittura, si cercava di ricreare gli effetti dello shellshock provocato da scoppi e detonazioni, che dovevano lasciare l’avatar virtuale, gestito dal giocatore, intontito, scosso nei sensi: momentaneo smorzamento dei suoni, annebbiamento della vista, rallentamento dei movimenti, causati da boati e spostamenti d’aria. Effetti immersivi e naturalmente non reali.
Se questi giochi fanno ormai parte della cultura pop e sono entrati nelle case delle famiglie (quanto meno occidentali) divenendo un prodotto di consumo di massa, l’impiego di simulazioni costruite sulla base di esperienze potenzialmente reali ha trovato spazio anche in altri ambiti, in campo civile e militare.
I piloti civili si addestrano con simulatori di volo capaci di testarne le capacità tecniche e cognitive, di fronte a situazioni estreme e di emergenza. Pure i musei si sono dotati di giochi virtuali in grado di proporre al visitatore le difficoltà di un’esperienza di gioco realistica. Ma sono forze armate e di polizia a impiegare dispositivi predisposti per riprodurre condizioni ambientali particolari, come scontri a fuoco e combattimenti in spazi urbani. Lo scopo è quello di addestrare il personale, di abituarlo a rispondere efficacemente e rapidamente a stimoli e azioni teoricamente reali. L’abitudine e l’esperienza sono fattori determinanti nello sfuggente e ingovernabile mondo della guerra. È opinabile tuttavia che la simulazione virtuale possa preparare veramente il soggetto alla traumatica esperienza del combattimento. Eppure l’obiettivo sembra essere proprio quello di svezzare, in qualche modo, il soldato del XXI secolo al caos dei conflitti armati contemporanei.
In questo senso, il gioco virtuale può avere una qualche utilità pratica, per quanto incompleta e oggettivamente parziale.
Lasciando da parte qualsiasi riflessione sulla possibile “violenza” di questi giochi, rimane da capire se Call of duty, Medal of honor e simili possano avere ricadute positive a livello didattico, se vi sia la possibilità cioè di trasmettere informazioni e nozioni di carattere storico-culturale ai giocatori, mediamente rappresentati da giovani e giovanissimi studenti. Probabilmente, sarebbe possibile adottare alcuni meccanismi educativi attraverso brevi testi, sintetiche descrizioni di fatti ed episodi, date ed eventi storici, in grado d’essere memorizzati facilmente dal giocatore. Il problema è che si tratterebbe comunque di uno strumento collaterale e secondario rispetto alla formazione scolastica tradizionale. Call of duty non potrà mai spiegare le cause della seconda guerra mondiale o i contenuti dell’ideologia nazifascista. Non potrà mai, a mio avviso, sostituire lo studio e l’applicazione quotidiana o assorbire funzioni e compiti che spettano alla scuola.
Un sistema educativo complessivo che, a tutt’oggi e, almeno nel nostro paese, vive peraltro una fase di grave difficoltà e non sembra essere al centro dell’agenda politica: indagini recenti hanno appurato che una buona percentuale degli studenti italiani fatica a comprendere un testo scritto. Che questo sia vero o meno, possiamo ben aggiornare didatticamente l’intelligenza artificiale di un videogioco ma senza la costruzione di una solida base culturale, senza un solido bagaglio di conoscenze, il percorso per formare cittadini consapevoli resta quanto mai problematico: renderlo meno accidentato resta il nostro dovere/call of duty principale.
(Aggiornato al 20 dicembre 2022)