Potere alla parola, è il titolo di una famosa canzone di Frankie hi-nrg mc del 1993. Aveva ragione il rapper torinese: le parole hanno un grande potere. Sull’onda lunga dei movimenti del 1968, nasce a livello internazionale un interesse storiografico finalizzato a dare voce alle classi sociali più basse. Paradigmatico è il contesto francese.
Gli studi d’oltralpe si sono concentrati, in particolare, nell’analizzare il processo di conquista e di appropriazione pubblica della “parola” da parte dei lavoratori e delle lavoratrici nella Parigi attorno al 1848. La “Capitale del XIX secolo”, come venne definita da Walter Benjamin, costituisce un caso di studio specifico, ma è indice di un processo che – con cronologie differenti – interesserà tutta l’Europa. La Monarchia di Luglio (1830-1848), infatti, costituisce un fertile terreno di ricerca per questi temi. In quegli anni, le classi sociali popolari parigine iniziarono un vero e proprio processo di emancipazione sociale e politica che le portò a battersi sulle barricate del febbraio e giugno 1848, dando vita alla cosiddetta “primavera dei popoli”. La presa di parola costituì in sé un elemento decisivo di quell’esperienza: la parola fondava un nuovo diritto, era alla base di una nuova concezione sociale e politica, rappresentava un’arma per costruirsi un’identità.
La voce popolare – così vivace e sfaccettata – prendeva forma negli slogan urlati durante i cortei, nelle scritte sui muri, nei fogli e nei giornali della stampa operaia, nelle riunioni clandestine, negli ateliers di lavoro, nelle canzoni cantante nelle osterie. La notte, in tutto questo, giocò un ruolo decisivo: per l’artigiano-operaio quelle ore, strappate alla normale successione del tempo del lavoro e del riposo, costituirono un momento fondamentale per divenire un vero e proprio “soggetto parlante” (splendido, anche se ormai un po’ datato, è il libro di Jacques Rancière, La nuit des prolétaires. Archives du rêve ouvrier, Fayard, 1981).
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Le classi lavoratrici, passo dopo passo, iniziarono a uscire dall’anonimato. Dovevano innanzitutto esprimersi in maniera autonoma, far sentire la propria voce nell’arena pubblica, senza intermediari che si ergessero a porta parola. Il termine “popolo”, infatti, era spesso confuso e usato come sinonimo di schiavo, insorto, assassino, brigante, canaglia. Le parole hanno un potere, si diceva prima. La possibilità di nominare un soggetto, come ha mostrato Judith Butler in un libro indispensabile Parole che provocano. Per una politica del performativo (Raffaello Cortina, 2010/1997), poggia sull’esercizio concreto di un’autorità che ha la facoltà di classificarlo a proprio piacimento, modificando la sua natura e attribuendogli delle caratteristiche parziali e fittizie. Un aspetto che vediamo in atto ancora oggi. Pensiamo ad esempio all’utilizzo del termine casseurs per definire i protagonisti degli episodi avvenuti nelle banlieus parigine nel 2005, all’impiego delle etichette di “violenti” e “black-bloc” nei confronti dei manifestanti a Genova in occasione del G8 del 2001 o degli attivisti No-Tav. Immagini che vanno a ridurre e semplificare la complessità, le differenti anime e motivazioni che animarono quei movimenti. L’incapacità del popolo parigino di farsi ascoltare – di divenire un “soggetto della propria storia” – era connaturata alla mancanza di uno status politico e sociale riconosciuto o, per lo meno, era riconosciuto in quanto subalterno alle classi dominanti.
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Oltre ai tentativi della borghesia e dell’aristocrazia di parlare “a loro nome”, le classi sociali più basse dovevano svincolarsi anche dalla tutela degli scrittori romantici. Il “popolo”, per studiosi come George Sand, Lamartine o Jules Michelet, costituiva uno stereotipo che assumeva i contorni del mito. Il popolo delle campagne veniva dipinto come un lavoratore bucolico, incontaminato dal progresso. Quello urbano, invece, incuteva timore, era più violento, criminale, oscuro e sempre pronto all’insurrezione. Le classi dangereuses – purgate da ogni forma di ribellismo – venivano percepite come un infante che doveva essere preso per mano, educato e guidato, in maniera paternalistica, verso il progresso della società. La necessità, poi, di moralizzare la classe lavoratrice era al centro di alcuni pensatori utopisti e di una parte della stampa operaia. Lo scopo era di esaltarne la moderazione e il civismo, rassicurando la nuova borghesia liberale.
Se a partire dalla Rivoluzione Francese, il concetto di peuple si formò in contrapposizione all’elemento aristocratico, durante la Monarchia di Luglio si assistette alla nascita di una nuova tipologia identitaria, quella del “popolo-lavoratore”. La parola operaia dava concretezza alla nozione di “popolo”, la rendeva meno astratta e indistinta, la differenziava dall’elemento borghese. Durante le barricate del febbraio e giugno 1848 questa categoria identitaria subì un’ulteriore declinazione. Quei mesi videro la nascita di una nuova immagine: quella del “popolo-re”.
“Le peuple est roi!
La force est dans ses mains!
Tout vient du peuple,
et tout doit être à lui !!”.
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La Repubblica del 1848 inaugurava una nuova era che doveva scardinare il tradizionale assetto politico-sociale. Il popolo, quindi, s’impossessava simbolicamente del titolo reale per fondare un nuovo corso nella storia, in cui “colui che produceva” non doveva più subire la legge, ma esserne il suo vero fautore:
“Tremblez, césars, potentats, race immonde, […]
La liberté fera le tour du monde;
Le peuple est roi, monarques, chapeau bas!”.
Lo ripetiamo: le parole sono importanti, le parole hanno un grande potere. Non dobbiamo leggere questi testi ponendo attenzione solo alla loro dimensione letteraria e poetica. Queste forme d’espressione popolare non intendevano rimanere solo come inchiostro sulla carta. Al contrario, rappresentarono una prefigurazione dell’agire collettivo poiché, riprendendo ancora Judith Butler, “il linguaggio è dopotutto ‘pensato’, vale a dire posto o costituito come ‘capacità di agire’”. Furono parole-azioni che avevano l’urgenza di comunicare un messaggio, che consentivano di far sentire la propria voce all’interno dello spazio pubblico, che sfidavano l’ordine costituito mostrando la presenza di un nuovo soggetto pensante e parlante, che esortavano all’assunzione di una presa di posizione. O, per dirla con Frankie hi-nrg mc:
“Agire, pensare, parlare, esplorare ogni capanna del villaggio globale,
Spalancare le finestre alla comunicazione personale, aprire il canale universale,
Dare fondo all’arsenale di parole soffocate dalle ragnatele di un’intera generazione di silenzio,
Questo è ciò che penso, la vita è la mia scuola e do potere alla parola”.
(Aggiornato al 7 luglio 2022)