“Macchine volanti […] lasciavano rovine, case incendiate e morti ammucchiati e dispersi”.
Così Herbert George Wells descrive, in The war in the air (La guerra nell’aria, 1908), uno scenario bellico apocalittico: l’aereo è apparso nei cieli solo da un lustro (il Flyer dei fratelli Wright, 1903), ma subito la mente immaginifica di Wells lo trasforma in qualcosa di diverso e di terribile. Wells non è l’unico a preconizzare “macchine volanti” capaci di colpire città e popolazioni civili: in tutta Europa, scrittori, registi, intellettuali, poeti e artisti gareggiano nell’esaltare l’aereo e il suo potenziale distruttivo. In Italia, l’immagine del velivolo, tecnologico e moderno, svincolato dall’originale dimensione pacifica e umanitaria (come strumento per avvicinare i popoli), sportiva e turistica, risalta in Gabriele D’Annunzio, nella poesia e nell’arte futurista: fantasie che concorrono a destare l’interesse di politici e militari dando il via a una vera e propria rivoluzione militare.
Ma come matura in Wells l’idea di un romanzo capace di preconizzare i futuri sviluppi bellici dell’aereo, tanto da divenire il punto di riferimento di teorici della guerra aerea e del bombardamento strategico come il maggiore Giulio Douhet? L’autore de La guerra dei mondi (1897) è, assieme a una nutrita schiera di intellettuali, da Jules Verne a Emilio Salgari, da Filippo Tommaso Marinetti a Franz Kafka, Jack London e tantissimi altri, uno scrittore capace di guardare oltre, di profetizzare il futuro in un’epoca, quella a cavallo tra Otto-Novecento, densa di conquiste scientifiche e tecnologiche. Una capacità visionaria che oggi il mondo della cultura non possiede quasi più ma che oltre cent’anni fa era in grado di accompagnare e anticipare tempi e modi del progresso.
Il 25 luglio 1909 Wells si trova nel giardino di casa sua quando una telefonata lo informa che l’ingegnere Louis Blériot ha attraversato la Manica a bordo di un monoplano Blériot XI. L’avvenimento lo lascia esterrefatto perché, con l’impresa dell’aviatore/progettista francese, vede realizzarsi le sue più fosche previsioni, descritte l’anno prima in La guerra nell’aria. Scriverà infatti: “La faccenda – che questa cosa inventata dallo straniero, costruita dallo straniero e condotta dallo straniero, abbia potuto attraversare la Manica con la facilità con cui un uccello sorvola un fiumiciattolo – pone un problema drammatico. Siamo ormai in ritardo […]. Lo straniero produce una classe di uomini migliori di noi”. Dietro queste parole allarmate, vi è la paura che la Gran Bretagna e il suo impero perdano quell’invulnerabilità e quell’egemonia mondiale che Londra aveva acquisito nel passato. La secolare supremazia marittima e l’isolamento dato dalla configurazione insulare delle isole britanniche, agli occhi di Wells, non sono più sufficienti a garantirne la sicurezza, ora che il primo aereo ha superato il Canale della Manica.
Sono riflessioni che avevano appunto trovato spazio in La guerra nell’aria, la cui trama, a metà tra fantascienza e spy story, è molto semplice. Bert Smallways è un giovane inglese attratto dal progresso e dalle scoperte tecnologiche. Salito casualmente a bordo di un pallone aerostatico, Bert si ritrova tra le mani i piani per la costruzione di una macchina volante innovativa e con questi progetti tocca incidentalmente terra in Germania, in un campo militare. L’alter ego di Bert è il perfido principe tedesco Karl Albert che sta preparando un massiccio attacco aereo contro l’America. Bert si ritrova suo malgrado arruolato a bordo della Vaterland, l’ammiraglia della flotta aerea germanica che bombarda New York. In qualche modo, il giovane riesce tuttavia a far pervenire i progetti del velivolo anche ai governi delle altre nazioni coinvolte nel conflitto. La guerra diventa così mondiale coinvolgendo Germania, Stati Uniti, Giappone, Cina e trascinando l’intero pianeta nell’abisso della distruzione e della barbarie più assoluta.
La prima edizione de La guerra nell’aria (edita in Italia da Treves nel 1909), come in parte anche quelle successive, era corredata da disegni avveniristici capaci di dare sostanza visiva alla ricca immaginazione di Wells. Quando lo scrittore inglese dà alle stampe The war in the air ha in mente soprattutto i dirigibili, le cui potenzialità distruttive trovavano riscontro negli Zeppelin tedeschi, aeronavi in grado di suscitare nei primi del Novecento tanto deliranti entusiasmi quanto profonde inquietudini. Ma è chiaro che il successo ottenuto da Blériot nel 1909 confermava e rafforzava alcune delle intuizioni descritte da Wells nel suo romanzo fantascientifico.
Come questa: “Nell’aria non vi sono strade, non vi sono canali, non v’è nessun punto dove si può dire: – Se il nemico vuol raggiungere la mia capitale deve passare da qui. – Nell’aria tutte le direzioni conducono in qualunque luogo. In conseguenza era impossibile di porre termine ad una guerra con i soliti metodi stabiliti dalle consuetudini”.
Malgrado Wells avesse intenzioni pacifiste, mettendo in guardia le nazioni dal pericolo di una fede cieca nel progresso e nel riarmo forsennato e irrazionale, la strada per la ‹guerra aerea totale› e le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki era definitivamente aperta. La realtà, in questo caso, avrebbe superato (e di gran lunga) qualsiasi, pur fosca e tragica, immaginazione.
(Aggiornato al 6 luglio 2023)