La pace prima si pensa, poi si fa

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A ben pensarci, entrare nell’ordine di idee della pace come orizzonte possibile, e desiderabile, per le parti in conflitto implica tempo, fatica, dolore, rinuncia e relativizzazione. Progressi e arretramenti. Acquisizioni marginali. E, prima di tutto, riconoscimento dell’altro, del nemico – antico o recente che sia. La pace non si fa né si dà in 24 ore. In quanto processo relazionale (ce lo ha insegnato oltre 60 anni fa il sociologo e matematico norvegese Johan Galtung), marcia di avvicinamento, cammino (così il cardinale Zuppi), essa implica un processo mentale ed emotivo di disponibilità al dialogo per fermare o quantomeno disciplinare la violenza (è il compito fondamentale dei cessate il fuoco e delle tregue) e per giungere a un accordo. Nella consapevolezza, sono parole di Henry Kissinger nel 1973, che «non ci sono miracoli», ma solo condizioni per una vita migliore rispetto all’attuale. Insomma, la pace non è il ‘tutto e subito’, ma capacità di tutte le parti coinvolte di relativizzare e di accettare limitazioni dei propri obiettivi. 

Con queste premesse è facile capire come mai la pace sia stata e continui a essere sulla bocca di tutti, invocata e persino banalizzata, mentre la sua costruzione implica sforzo e sofferenza, come quelli, nella metafora del politologo William Zartman, provati da chi deve afferrare e da chi è afferrato sull’orlo di un burrone: con le due mani che si avvicinano nello spasmo, per finalmente raggiungersi. Nel confronto diretto o più spesso mediato tra i contendenti, pace significa disponibilità al dialogo: sedersi e parlare, come accettò di fare Nelson Mandela, ancora prigioniero, con gli inviati del governo afrikaner. Sedersi al tavolo, metafora senza tempo del negoziato, con intenzioni serie e senza bluffare – senza pensare di poter thumb and talk, colpire e dialogare nello stesso tempo – è già progredire sulla via del confronto che, pur spesso sbilanciato, non può essere umiliante e inaccettabile per la parte più debole. Lo sapeva già Lucano, poeta latino, quando scriveva «la pace viene con un padrone».

Per fare la pace, e prima ancora per pensarla come possibile e desiderabile, serve immaginazione e visione, anche creatività. In molte realtà dove lunghi conflitti si sono spenti oppure sono ancora striscianti e intermittenti passare dalla pace siglata negli accordi internazionali alla pace di tutti i giorni sul territorio insegna che servono anche uomini e donne di buona volontà: le donne, soprattutto, si sono dimostrate facilitatrici a livello ‘micro’ della cessazione della violenza e del riequilibrio delle condizioni di vita materiale per singole comunità. 

È questo patrimonio umano nelle vallate del paesaggio della pace, lontano dai vertici dove i decisori hanno raggiunto accordi che non sono mai perfetti (le famose nebbie della pace, the peace fog), che può fare la differenza. Ieri come oggi e domani. Senza dimenticare che anche lo studio dei processi di pace continua a progredire monitorando e cercando di interpretare realtà sempre più ibride e complesse, dove spesso dimensioni di guerra convivono con anticipazioni o scampoli di pace, dove le tregue – spesso criticate perché parziali e fragili – possono invece costituire preziosi test per verificare l’autentica volontà di pace delle parti e soprattutto per dare sollievo alle popolazioni. 

In un mondo dove le guerre sono cambiate, presentando tratti antichi misti a dinamiche nuove, l’architettura della pace – è la tesi di Oliver Richmond – si è ormai fatta flessibile, capace di prevedere un palinsesto multilivello nel quale, agli strati collaudati e introiettati in alcuni casi da secoli, si aggiungono strati più recenti modellati dai nuovi conflitti e dalle sfide della governance globale e digitale. In questo paesaggio, dove serve trovare la forza per un nuovo e fattivo multilateralismo, la pace continua in ultima analisi ad essere affidata alla volontà dei leader, ancorati alla loro sopravvivenza politica, e alle capacità negoziali dei mediatori. Il tempo della diplomazia resta prezioso e non deve essere bistrattato. Never stop talking, dicono gli addetti ai lavori. Perché non c’è un’altra strada.

Arianna Arisi Rota
Storica, insegna nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Pavia. Si è occupata di diplomazia nell’Italia napoleonica, di mobilitazione politica giovanile nell’Ottocento europeo, di costruzione della memoria post-risorgimentale. Tra le sue monografie: I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani (il Mulino, 2010), 1869: il Risorgimento alla deriva. Affari e politica nel caso Lobbia (il Mulino, 2015), Risorgimento. Un viaggio politico e sentimentale (il Mulino, 2019), Il cappello dell’imperatore. Storia, memoria e mito di Napoleone Bonaparte attraverso due secoli di culto dei suoi oggetti (Donzelli Editore 2021).

(Aggiornato al 30 aprile 2025)