1956-1958: dal cantiere al consorzio
Nel 1956 inizia per i cittadini del comune di Erto e Casso la storia della diga del Vajont. Il monopolio elettrico Sade (Società Adriatica di Elettricità) approda nella valle del Vajont, aprendo il cantiere per quella che all’epoca diventerà la più grande diga del mondo. Duecento metri di cemento collegheranno il Monte Salta al Monte Toc, generando un bacino artificiale di 168 milioni di metri cubi d’acqua. L’avvio del cantiere segna anche la prima tappa di quello che nel 1997 Marco Paolini definirà “il più grande funerale d’Italia dopo Caporetto”: il disastro del Vajont.
L’arrivo della Sade getta scompiglio nella vita degli ertocassiani; gran parte delle loro proprietà sarà sommersa dalla “banca dell’acqua” e il monopolio inizia ad espropriare le loro terre. La realtà del Comune è quella di un ambiente rurale, montanaro, contadino e la Sade non si fa scrupoli a sfruttare l’ignoranza della popolazione per acquisire le terre.
Conseguentemente agli espropri nel 1958 le famiglie del comune di Erto e Casso creano per difendersi il “Consorzio per la difesa e la rinascita della valle ertana” assumendo veste giuridica. L’unico testimone nei quotidiani di questo evento è L’Unità con un articolo firmato Tina Merlin. Il titolo racconta la verità di questi primi due anni di storia dell’impianto: “La Sade spadroneggia, ma i montanari si difendono”.

1960-1961: la prima frana
La costruzione della diga procede a gonfie vele. Nel 1960 si è già pronti alla prima prova di invaso. L’aria è tesa per la Sade, l’ombra della nazionalizzazione incombe e l’impianto va collaudato in modo da consegnarlo funzionante ed essere risarciti. Così il monopolio, nonostante numerose perizie geologiche lo sconsiglino, prima inizia l’invaso e solo dopo chiederà l’autorizzazione.
Non appena il bacino inizia a riempirsi il Monte Toc risponde e il 4 novembre 1960 riversa una frana di 750 mila metri cubi di roccia nel lago artificiale. Chi racconterà questa verità sarà di nuovo solo un articolo di Tina Merlin.
Come conseguenza alla frana il 2 febbraio 1961 nel consiglio provinciale di Belluno i gruppi socialista e comunista presentano un’interpellanza da sottoporre alla Camera dei deputati, per provare ad arginare l’operato fraudolento della Sade. Ancora una volta Tina Merlin, con un titolo che si dimostrerà tragica previsione: “Un’enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto”.
1963: la verità della cronaca
9 ottobre 1963, ore 22.39, Monte Toc. 270 milioni di metri cubi di roccia franano nel bacino artificiale generando un’onda di 200 metri di altezza, che superata la diga si riversa nella valle del Piave. Facendosi strada nella gola l’acqua genera uno spostamento d’aria che si abbatte sull’abitato di Longarone con un forza stimata di due bombe di Hiroshima. 1917 i morti.
Sulla tomba di terra e fango arrivano il giorno dopo i giornalisti di ogni testata nazionale, creando due distinte verità. La prima raccontata dai giornali filogovernativi si può riassumere con la narrazione che Dino Buzzati dà del disastro sul Corriere della Sera: un sasso cade in un bicchiere e l’acqua si riversa su di una tovaglia. Il bicchiere è costruito a regola d’arte, il sasso che cade non è un evento prevedibile, la responsabilità è del monte che ha tradito, della natura che è crudele, l’uomo non ha colpe.
La seconda narrazione è quella dei giornali di sinistra e in particolare de L’Unità, e trae conclusioni diverse: la responsabilità è umana, la frana prevedibile.
Nei giorni successivi questa “seconda verità” è oggetto di discredito e chi la sostiene viene presentato come uno “sciacallo del Vajont”.

1971-1997: la verità della storia
La sentenza del processo di primo grado riconosce agli imputati la colpevolezza per non aver dato l’allarme, ma non ritiene la frana prevedibile. Saranno poi il processo d’appello e di Cassazione a farlo, giudicando gli imputati colpevoli di inondazione aggravata dalla previsione dell’evento. È il 1971 e per molti il Vajont è un ricordo lontano, la sentenza non trova l’interesse nazionale e la verità sul disastro è ancora quella di un “bicchiere perfetto” e di una natura crudele.
Nel 1983 esce Il grande Vajont, uno dei primi studi storici sul disastro ad opera di Maurizio Reberschak. Il disastro non è più un fatto di cronaca, ma sta affrontando il “verdetto della Storia”, che scava nel fango, guarda oltre gli articoli dei grandi giornalisti e non si accontenta di suscitare emozioni ai lettori. Porta invece alla luce una verità da molti ignorata o dimenticata: il disastro è opera dell’uomo.
Questa verità raggiunge il grande pubblico il 9 ottobre 1997. A distanza di 34 anni dal disastro, Marco Paolini racconterà in diretta nazionale la storia del Vajont, dall’idea del progetto all’avvio del cantiere, dagli espropri dei terreni alla frana del 1961, dal disastro del 1963 alla testimonianza dimenticata di Tina Merlin. La verità storica della strage del Vajont viene così a galla.

Michele D’Andrea
Bellunese trapiantato a Bologna. Laureato in Storia continua ora con la magistrale in Scienze storiche e orientalistiche, alternando una salita in cabinovia sci in spalla agli studi di Storia Contemporanea.
(Aggiornato al 4 luglio 2024)