Allegro ma non troppo

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Si può ridere della storia? Posta così, la domanda non sembra lasciar spazio a dubbi: sì. Nulla ci sarebbe di scandaloso o problematico nel fare una battuta su Pipino il Breve, Aroldo I detto “Dente azzurro” o la povera Maria Stuarda, ma se ricalibriamo il tiro e restringiamo il campo, avvicinandoci a eventi più recenti e dolorosi la risposta cambia di segno, per lo meno nel senso comune.

Affrontare il passato in chiave ironica diviene infatti più ostico quando si parla di traumi, massacri e tragedie. Questo perché la risata può sì portar conforto, ma al tempo stesso ci induce a perdere il controllo o, ancor più, a ridicolizzare qualcosa che di ridicolo ha molto poco. Ridere svela il nostro carattere animalesco, ci allontana dall’oggetto della nostra risata e questo potrebbe portare a perdere empatia – vedi l’etimologia di “sarcasmo”, letteralmente “lacerare la carne”. Ma non sempre è così e non è un caso che il tema abbia suscitato dibattito fra gli intellettuali, che del riso sono arrivati a dare giudizi anche molto diversi.

 “L’umorismo”, scrive il critico letterario e docente universitario inglese Terry Eagleton nel suo saggio Breve storia della risata (il Saggiatore, 2020), “può essere una questione di difesa o di affermazione, di sovversione o di celebrazione, di solidarietà o di critica”. Sfaccettato, poliedrico, ambiguo, l’umorismo mescola le carte, “nasce da uno scontro di aspetti incongrui, dall’improvviso spostamento di prospettiva, dall’inaspettato slittamento di significato, da una dissonanza o discrepanza spiazzanti, da una momentanea defamiliarizzazione e così via”. 

A rendere delicata la questione, in definitiva, è la materia. Navigando sul web è più facile incorrere in un divulgatore scientifico che usa le chiave ironica, che sia per parlare del sesso delle scimmie o di qualche bizzarro fenomeno chimico, piuttosto che in un public historian capace di raccontare il ‘900 a colpi di freddure. Il passato (più vicino) dell’umanità, carico di sofferenza, sopraffazione e ferite, poco si presta all’ironia.

Nonostante ciò, c’è chi comunque considera possibile ridere delle tragedie e non per forza deridendone le vittime. Anzi. Dalla domanda “si può ridere dell’Olocausto?” è nato un pregevole documentario, The Last Laugh (2016), che ragiona sul tema dando voce a chi ha vissuto questa tremenda esperienza sulla propria pelle, i sopravvissuti, e a chi con il riso ci lavora, i comici. Ne abbiamo parlato, in uno dei “Punti di vista”, con la regista, la statunitense Ferne Pearlstein.

Ciò che emerge non è un quadro univoco: la morale non è che tutti possano o debbano ridere delle tragedie ma che il tempo, o meglio il contesto (di luoghi, momenti, pubblici) in cui si può fare umorismo, finisce per essere determinante nel tracciare dei limiti. Limiti diversi per sensibilità e, ovviamente, generazioni; oltre che, come vedremo nel caso del fascismo, per forma di governo in vigore. 

“Il tempo finisce per essere sempre umorista”, scriveva Achille Campanile nel suo Trattato delle barzellette, ma nel mentre il limite fra ciò di cui è lecito e ciò di cui non è lecito ridere continua a mutare. Di questo scrive Francesco Filippi, in un articolo che ripercorre rapidamente il ruolo del riso nella storia. 

Non esiste d’altronde un solo modo di ridere. La risata, scrive ancora Eagleton, “è una lingua con una serie di idiomi diversi”, che si manifesta in modi diversi, coinvolgendo diversi muscoli e veicolando diversi significati. Le risate si differenziano per “il volume, il tono, l’intensità, la velocità, la potenza, il ritmo, il timbro, la durata”, trasmettono una serie di stati d’animo emozionali che non sempre hanno a che fare con il divertimento e che compongono un vero e proprio vocabolario. Un “vocabolario” dei cui “lemmi” ci parla Alice Manfredi nella rubrica “Strumenti”.

Tra i linguaggi più affermati di questo fenomeno “universale ma non uniforme” che è la risata, c’è sicuramente la satira. Strumento efficacissimo per sbertucciare il potente, la pompa dei regimi o la loro ridicola ritualità, in pace come in guerra, ha rappresentato anche un modo di ridicolizzare l’altro, i suoi difetti e i suoi costumi. Ne ha scritto Rodolfo Taiani, curatore con Danilo Curti-Feninger, di una fortunata mostra itinerante sulle vignette satiriche nella Grande Guerra. 

Di guerra, in una chiave che non disdegna l’ironia, tratta anche lo spettacolo La guerra dei Bepi dell’attore e drammaturgo Andrea Pennacchi. Lo abbiamo intervistato e anche lui ha ribadito come la risata altro non sia che una lente indispensabile per vivere e sopravvivere, anche in momenti bui e oscuri della vita e della Storia. 

Quanto il riso fosse caratteristica divina, e quindi umanissima, anche secondo gli antichi, è questione affrontata invece ne “Il caffè con” Tommaso Braccini, docente universitario e filologo, autore di diverse pubblicazioni sul tema. 

Infine un ultimo affondo in ambito educativo: è possibile apprendere la storia attraverso l’ironia? Ne abbiamo parlato con Emanuele Curzel, professore universitario autore di un esperimento con i “memi”, mentre Luca Nicolodi e Denis Pezzato che si occupano di didattica nella nostra Fondazione ci raccontano le difficoltà di adattare un “format” ironico a una storia tragica. 

(Aggiornato al 22 febbraio 2024)