Se Pinochet fosse vivo voterebbe per me

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Santiago del Cile, 11 settembre 1973. Cinquant’anni fa. La voce del presidente democraticamente eletto, Salvador Allende, ferma e chiara tra le esplosioni che già scuotono la Moneda, il palazzo presidenziale, viene trasmessa da Radio Magallanes nell’ultimo, potentissimo, discorso: “Hanno la forza, potranno sottometterci, ma i processi sociali non si fermano né con il crimine né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli”. 

Infatti, i processi sociali non si fermano. Se solo di questo si fosse trattato il regime di Pinochet, sorto sui cadaveri di Allende e di altre decine di migliaia di persone, sarebbe stato “solo” l’ennesima sanguinaria dittatura militare latino-americana di quel periodo storico. Invece non lo è stato, in nessun ambito: nemmeno quello della memoria.

Se guardiamo al Cile di oggi i diciassette anni di regime non sono affatto un’eredità imbarazzante per una parte consistente, forse maggioritaria, del paese. “Se Pinochet fosse vivo voterebbe per me” ha affermato nel 2021 Josè Antonio Kast, figlio di un iscritto al partito nazista fuggito in Cile dopo la seconda guerra mondiale, fratello di uno dei ministri del dittatore e leader della destra cilena. Sconfitto alle elezioni presidenziali del 2021, nel 2023 il suo partito ha ottenuto 23 seggi su 51 nel nuovo Consiglio costituente.

I processi sociali non si fermano con il crimine e con la forza. Ma con il crimine e con la forza se ne può invertire il corso. “Una controrivoluzione è una rivoluzione ribaltata” come fanno dire i Wu Ming al villain de L’armata dei sonnambuli. E il regime di Pinochet non è stato solo un modo feroce di fermare il socialismo democratico di Allende, è stato l’avvio di un processo di segno opposto, ma egualmente intenzionato a trasformare radicalmente la società cilena e a divenire un modello a livello mondiale.

Il Cile è stato la culla della rivoluzione liberista, che da lì si è espansa in tutto il mondo. Le sue basi teoriche non vanno ricercate negli scritti e nei discorsi di Hitler e Mussolini, ma in quelli di Milton Friedman (premio Nobel per l’economia nel 1977) e di Ayn Rand. Non c’era un partito-stato, ma un think tank di economisti, i Chicago boys. Come in tutti i totalitarismi, il terrore di stato serviva ad imporre una precisa agenda di trasformazione della società, in questo caso attribuendo all’economia un ruolo fondamentale: privatizzazioni di aziende e servizi pubblici, “flessibilità” nel mercato del lavoro, liberalizzazione totale dell’import/export. Il tutto sostenuto da generosi prestiti del Fondo Monetario Internazionale e dall’apertura del mercato nordamericano ai prodotti agroalimentari cileni. Dal 1976 il Pil iniziò a crescere con una media del 6-8% all’anno.

Nel 1988 venne indetto un Referendum popolare per dare sanzione legale al tentativo di Pinochet di restare in carica come Presidente della Repubblica per un altro mandato. Il 55% degli elettori ed elettrici si espresse contro quest’opzione e così nel 1989 ci furono le prime elezioni multipartitiche. L’ex dittatore restò capo delle forze armate (lo sarebbe rimasto sino al 1998, per poi passare a senatore a vita), la costituzione da lui varata nel 1980 restò in vigore (lo è tutt’ora e molto probabilmente, il tentativo di riscriverla finirà in una semplice correzione di bozze). 

E soprattutto rimase integro il sistema economico/sociale pinochetista. 

Nel 2019 l’1% della popolazione cilena deteneva il 26,5% della ricchezza, il 50% più povero il 2%.  Solo l’11% degli studenti provenienti dai settori più poveri della popolazione riusciva ad ottenere un titolo universitario, contro l’84% degli studenti più abbienti. La sanità è privatizzata, il sistema pensionistico è gestito da compagnie assicurative private e molte pensioni non arrivano ai 400€ al mese. Il fatto che dopo 30 anni di formale democrazia con una costante alternanza di governi, nulla sia cambiato dimostra che le elezioni pluri-partitiche non hanno segnato la fine del regime insediatosi nel 1973, ma la sua definitiva stabilizzazione. Del resto, una volta liquidata (proprio grazie al “ritorno alla democrazia”) l’opposizione armata dei gruppi guerriglieri, per tenere la parte più povera della popolazione in una condizione di esclusione dai processi decisionali non servono più carri armati e voli della morte, bastano i meccanismi della quotidianità: per esempio rendendo impossibile accedere ad un lavoro tutelato, escludendo dal servizio sanitario chi non ha assicurazione, smantellando un welfare sociale dignitoso. 

Così nel 2019 il cambiamento è arrivato nell’unico modo possibile: nelle piazze, con manifestazioni per nulla pacifiche, scontri, incendi, arresti e una ventina di morti. L’estallido social, come è stato chiamato, è iniziato per un lieve aumento del costo dei trasporti pubblici ed è diventato un gigantesco movimento di massa che ha dato voce alle istanze delle classi popolari, del movimento femminista e della popolazione nativa. “No son 30 pesos, son 30 años” era lo slogan che risuonava nelle piazze: la ragione del contendere non sono 30 pesos (l’aumento del prezzo dei trasporti), ma 30 anni di falsa democrazia.

L’onda lunga della mobilitazione ha portato all’elezione del presidente di centro-sinistra Gabriel Boric e di un primo Consiglio costituente che avrebbe dovuto redigere una nuova costituzione. Poi, ancora una volta, la rivoluzione si è ribaltata. La grande enfasi data da governo, partiti di sinistra e movimenti sociali alla stesura del nuovo testo costituzionale ha finito per allontanarli da una società nella quale i carabineros e la criminalità organizzata continuano a uccidere, i prigionieri politici catturati negli scontri dell’estallido social restano in carcere, la militarizzazione e lo sfruttamento dei territori Mapuche sono addirittura aumentati, la situazione economica è peggiorata, mentre l’immigrazione dai paesi limitrofi spaventa buona parte della popolazione. Così la nuova costituzione è stata sonoramente bocciata alle urne da oltre il 60% dei e delle votanti, dopo essere stata definita una “lista dei desideri di una sinistra fiscalmente irresponsabile” dall’Economist. Nel frattempo in parlamento è naufragato il progetto governativo di riforma tributaria, mentre sono stati approvati la riduzione delle ore lavorative settimanali da 45 a 40, ma anche una legge che aumenta la possibilità delle forze dell’ordine di fare uso della forza letale. 

Questo numero di History Lab Magazine, attraverso testimonianze, ricerche e interviste sul campo,  è dedicato a questo cinquantennio complesso: i suoi effetti sul presente e il futuro di un Paese che, per molti versi, ha fatto da laboratorio per un nuovo modo di intendere il rapporto tra cittadini e potere. Un numero monografico sulla costruzione, faticosa, di una memoria pubblica non semplice e ad oggi tutt’altro che conclusa.

(Aggiornato al 27 settembre 2023)