Quanto è importante la cucina per l’identità? Le risposte a questa domanda ci conducono verso strade diverse, talvolta impervie. Se è vero che il cibo, elemento essenziale per la vita, centrale in tutte le culture (più o meno a seconda del caso), può riflettere la grande varietà culturale di ogni luogo del globo, dall’Ottocento in poi si è trasformato in un forte elemento identitario capace di costruire gerarchie e tracciare confini. Non che nel passato, quantità e tipo di cibo non rispecchiassero le differenze sociali: è noto ad esempio come Carlo Magno abusasse della carne arrosto consumata in pantagrueliche abbuffate, e ciò nonostante, soprattutto in tarda età, i medici privati glielo sconsigliassero. Mangiare tanto, in età medievale, distingueva il nobile dal popolano (che moriva di fame) e la carne – si credeva – infondeva la forza propria di un capo guerriero. Opposta alimentazione, dunque, dei condottieri d’età classica, di cui si lodavano le abitudini frugali e morigerate. Ma per i giorni d’oggi, lo snodo decisivo va intravisto, ancora una volta, agli albori del fenomeno nazionalistico: è qui che anche la cucina comincia a svolgere un importante ruolo identitario per definire chi ha le stesse abitudini, gli stessi gusti, gli stessi sapori, e chi no. Da qui, nei secoli delle migrazioni e delle guerre, gli sprezzanti insulti verso chi si identifica con il cibo che mangia, siano le rane, il riso, i crauti o gli spaghetti. Il cibo diventa così elemento di identificazione forte, di esclusione, di superiorità – poco importa se le abitudini culinarie, che si vorrebbero secolari, in realtà si definiscono in età recente, complici la crescita di un benessere diffuso e dell’industria agroalimentare. In certi casi, poi, la cucina offre proprio quel collante necessario per riconoscersi in un’appartenenza nazionale altrimenti frastagliata e frammentata. È il caso dell’Italia culinaria, molto più unita e salda alle sue consuetudini e (presunte) tradizioni della tavola che non politica-social-culturalmente: la pasta o la pizza, insomma, a far le veci della storia.
Ma è sempre stato così? Gli italiani hanno sempre mangiato quei cibi ora assurti a emblemi nazionali? Ovviamente la risposta è no. Come spesso accade, la disciplina storica ci viene in soccorso per comprendere come la realtà, in quanto stratificazione di fatti, fenomeni, pratiche, sia ben più complessa. Per questo abbiamo scelto di dare voce a uno storico, Alberto Grandi, che da tempo attraverso pubblicazioni e prodotti di divulgazione cerca di mostrare come la cucina italiana sia una tradizione inventata solo di recente. In dialogo con Sara Zanatta, il professore e voce del fortunato podcast DOI (Denominazione di origine inventata) ci aiuta a entrare in una storia di marketing formidabile che dice molto sulla capacità innovative degli italiani, sul ruolo identitario dell’emigrazione e sulle distorsioni del capitalismo nostrano. Se c’è chi studia il fenomeno dall’accademia, c’è anche chi dell’identità in cucina ci ragiona fra pentole e fornelli: per questo l’altro punto di vista abbiamo deciso di dedicarlo a un cuoco, ristoratore e scrittore “vagabondo” fra le cucine di Francia e Italia. Tommaso Melilli, intervistato da Matteo Gentilini, ci ha raccontato quale ruolo abbiano i cuochi e gli osti nel definire l’identità culinaria di un luogo, così come nel costruire abitudini più o meno sane e sostenibili del mangiare.
Al potere di identificazione con un cibo è dedicato invece il topic firmato da Francesco Filippi. E quale altro connubio avremmo potuto analizzare se non quello fra pasta e italianità? Simbolo di quello che lo scienziato sociale britannico Michael Billig definisce “nazionalismo banale”, la pasta – preparata sin dall’antichità in numerose parti del mondo – è divenuto elemento identitario da rivendicare e difendere in una sua supposta “purezza”; una “purezza” che tollera solo specifici formati per specifici sughi, cotture al secondo e integrità dello spaghetto. Eppure la cucina, come ci racconta Tommaso Baldo a margine della chiacchierata con due amiche immigrate in Italia da Tunisia e Pakistan, è soprattutto altro: è frutto di un costante lavorio di mescolanza, incontro, rielaborazione a seconda dei gusti di chi cucina e di chi mangia.
Quando un prodotto o un cibo si trasformano in “patrimoni nazionali”, monumenti edibili riconoscibili e riconosciuti da una comunità, ci avviciniamo invece a un fenomeno che la sociologa statunitense Micheala DeSoucey definisce “gastronazionalismo”. Di fronte alla portentosa globalizzazione dei mercati, i meccanismi difensivi del protezionismo si manifestano attraverso etichette e marcature allo scopo di difendere prodotti e “tradizioni” che si vogliono intoccabili e radicate in tempi immemori Nella rubrica “Un caffè con”, Anna Claudia Cecconi, coautrice con Michele Fino del libro Gastronazionalismo: come e perché l’Europa è diventata indigesta dialoga con Alice Sibilio, raccontandoci come il Vecchio continente sia particolarmente interessato da un fenomeno che fra legittime tutele al settore agroalimentare, distorsioni del mercato e rigurgiti xenofobi investe l’economia, le politiche, la cultura e le società europee.
Dietro ogni piatto, ancora, c’è una storia fatta di intrecci, stratificazioni, innovazioni e…diverse maniere di chiamarlo. Nel nostro piccolo territorio di frontiera, dove convivono influenze dell’Italia settentrionale come della Mitteleuropa, possiamo trovare cibi che ignorano gli attuali confini nazionali e aprono una finestra su passati non tanto lontani. È il caso del “gulash”, piatto tipico ungherese ma diffuso anche nelle vallate trentine, chiamato a seconda del luogo con un nome differente. Ce ne ha parlato l’antropologo Cesare Poppi, bolognese ma trentino d’adozione, che alla cucina ha dedicato svariati (scherzo! vari ;)) lavori. Elisabetta Antonelli ha invece scavato negli archivi della Fondazione Museo storico del Trentino per raccontarci una straordinaria fonte dei desideri di gola dei trentini e delle trentine di ogni estrazione sociale. I ricettari conservati nell’Archivio di scrittura popolare danno conto non di ciò che si mangiava, appunto, ma di suggestioni, idee, fantasie che le/gli scriventi avevano al di là della monotonia quotidiana del mangiare per sopravvivere. Scrivere di cucina, come evidenziano gli studiosi di storia dell’alimentazione, traccia un confine netto con le società di tradizione orale, che non sviluppano una memoria stratificata e non producono alcuna accumulazione delle conoscenze. Da qui si può affermare che cibo e letteratura intreccino i loro destini gettando le fondamenta d’una tradizione culinaria e contribuendo a costruire l’idea di una cucina territoriale. E’ il caso di un libro scritto da Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, da molti paragonato per gli effetti sulla “coscienza culinaria” nazionale a ciò che I promessi sposi fecero per la lingua italiana. Ce ne parla Mirko Saltori.Della rappresentazione del cibo nella cultura di massa ci parla Denis Pezzato in una carrellata di immagini iconiche, per la rubrica gallery. Anche l’occhio, in cucina, ha la sua parte! In definitiva, questo numero, curato da Davide Leveghi e Sara Zanatta, ci racconta come mangiare non sia solo questione di riempirsi la pancia. Mangiare non solo nutre i nostri organismi, ma anche le nostre identità. Buona lettura e buon appetito!