Abbiamo chiesto a tre esperte di arte e performing art di provare a pensare a tutte le volte in cui l’arte contemporanea è stata sovversiva e le abbiamo sfidate a scegliere quella figura che merita di stare orgogliosamente nella categoria di “rompiscatole”. Per aver messo in discussione l’esistente con gesti artistici estremi o poetici, per aver agito decisioni coraggiose in tempi bui, per aver sperimentato pratiche di libertà anche fuori dagli spazi museali. Ecco cosa ci hanno risposto.
Virginia Sommadossi
Creative Director e comunicazione per Centrale Fies e per il corso di Teatro e Arti Performative e studi di genere dell’Università IUAV di Venezia
Un po’ per interesse personale, un po’ per la linea politica quotidiana del centro per cui lavoro, ho pensato che la cosiddetta ”Arte di Infiltrazione” potesse essere interessante. Per parlarne dobbiamo entrare in un territorio inedito, quello della sovversione e dell’irruzione in istituzioni, sistemi, ambienti. È un’arte che si infila, senza bussare, in spazi dove non è invitata, in contesti quotidiani dove l’arte di solito non osa mettere piede, ma difficilmente è maleducata. Solitamente va a scovare, tra le pieghe dell’ordinario, dove si cela la possibilità di ridefinire il reale. Può un gesto artistico diventare un urlo di protesta, un abbraccio a chi si sente escluso, una dichiarazione di intenti? Può l’arte sfidare le convenzioni, destabilizzare le aspettative, esprimere l’irrequietezza di un pensiero che non si piega? Attratti da questo spirito di ribellione, gli artisti e le artiste “di infiltrazione” si muovono tra le pieghe della società, creando un mondo in continua trasformazione, dove ogni gesto si carica di significati nuovi e radicali. Le loro azioni diventano manifesti visivi, forme che parlano a tutti, che rompono il silenzio e pongono interrogativi urgenti.
Ora c’è solo da scegliere quale. Nel cuore io ho Giovanni Morbin. Non è che tutto ciò che non ci piace va distrutto o la narrazione mainstream censurata, ci sono modalità che creano dibattito in modo potente. Nel 2014, Giovanni Morbin ha fatto un’aggiunta sottile ma incisiva sulla facciata dell’ex Casa del Fascio di Valdagno, oggi ufficio delle imposte. Accanto alla “M” monumentale e rigida, simbolo muscolare del fascismo, è apparsa una delicata “e” in marmo rosa. Un gesto minimo ma dirompente che riapre la ferita mai chiusa del fascismo, mettendolo sotto i nostri occhi con forza disarmante.
Per i cittadini e le cittadine, con l’abitudine a quella “M” come parte del paesaggio, l’apparizione della “e” è una scossa nel quotidiano, un disturbo che risveglia la coscienza, riportando alla luce questioni che pensavamo archiviate. Morbin ha introdotto nel flusso ordinario della vita una provocazione invisibile ma penetrante: un invito a guardarsi dentro e riconoscere quell’ego fascista, spesso dormiente, ma mai davvero estinto.
Questa azione performativa ha dato origine a un’installazione che, pur essendo minimalista, ci mette di fronte a interrogativi profondi su come viviamo lo spazio pubblico e su quanto sia impregnato di memorie scomode. Con un gesto così preciso, Morbin trasforma l’architettura e la scultura in strumenti potenti, che svelano quelle tensioni sottili e inquietanti di un fascismo ben mascherato, nascosto sotto una patina di rispettabilità, borghesia, perfino benevolenza.
Frida Carazzato
Curatrice scientifica Museion – museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano
Mi verrebbero tanti nomi, ma forse se penso al territorio e ai miei più recenti interessi direi Mirella Bentivoglio (1922 – 2017), artista, curatrice, poetessa e scrittrice.
Nel 1968 si è avvicinata alla Poesia concreta, visiva e alla poesia-oggetto. Ha lavorato tra il linguaggio, l’immagine e le figure archetipe, collaborando e sostenendo negli anni il movimento femminista italiano e internazionale. Celebre è la mostra intitolata “Materializzazione del linguaggio” da lei curata nel 1978, in occasione della 38ª Biennale Arte di Venezia. Questa mostra collettiva presentava solo donne artiste e, nonostante sia durata solo un mese, è stata l’occasione per porre finalmente sotto i riflettori della kermesse veneziana la mancanza delle artiste, della loro voce e della loro produzione nelle grandi esposizioni nazionali e internazionali.
Mirella Bentivoglio come artista ha esposto in moltissime manifestazioni internazionali e come curatrice è stata una figura centrale nel creare connessioni tra le artiste italiane e le ricerche internazionali, creando un ponte necessario tra le produzioni artistiche e il pensiero di molte artiste. Il ruolo di Mirella Bentivoglio è indubbiamente cruciale non solo nella storia dell’arte italiana e internazionale ma anche nella riscrittura della stessa. La sua mostra in occasione della Biennale di Venezia è stata oggetto negli ultimi anni di numerose ricerche e riscoperte, che permettono quindi di portare avanti il suo instancabile lavoro di promozione, riscrittura e affermazione e autodeterminazione di quello che è stato definito “il soggetto imprevisto”, ovvero la donna.
Una parte considerevole del suo archivio e della sua collezione sono attualmente custoditi presso il Mart di Trento e Rovereto, compresa una delle opere che secondo me si lega meglio con il tema trattato in questo Magazine: “Correzione – Promozione linguistica del cucito (1988), in cui si legge il testo “Niente Abbiate paura, sono una donna”
Chiara Radice
Storica dell’arte, funzionaria presso Unità di missione strategica soprintendenza per i beni e le attività culturali PAT
Quando nell’agosto del 1943 Milano fu devastata dai bombardamenti, solo una decina delle sale della Pinacoteca di Brera resistettero a fatica allo sfacelo; le altre furono distrutte. Lo spettacolo spettrale che si presentò agli occhi della direttrice Fernanda Wittgens (1903-1957), uscita dal carcere dove era stata rinchiusa per la sua attività antifascista, fu straziante, ma dalle macerie di Brera i suoi “capolavorissimi”, come lei li chiamava, si erano salvati, grazie alla lungimiranza di quella donna tenace e appassionata, che mesi prima aveva svuotato la Pinacoteca ricoverando le opere di Mantegna, Piero della Francesca, Caravaggio e tanti altri in giro per l’Italia del centro-nord, in luoghi sicuri, mettendo a repentaglio la sua stessa vita trasportandole su mezzi di fortuna, strappandole dall’oblio della distruzione. Anche il Cenacolo di Leonardo da Vinci era ancora in piedi, grazie al sistema di protezione cautelativo da lei voluto. E quando venne il momento di ricostruire, Fernanda Wittgens, a cui era stato proposto un modesto restauro di tre salette per un’immediata riapertura, s’oppose con determinazione: la “Grande Brera” doveva rinascere, tutta, senza compromessi né ulteriori menomazioni. E così fu. L’allodola – come affettuosamente l’aveva ribattezzata Ettore Modigliani – dispiegò le sue ali e mostrò al mondo la sua grandezza. Una Pallade Atena, o forse una Valchiria, per Antonio Greppi, sindaco di Milano, che inizialmente le rifiutò l’acquisto della Pietà Rondanini di Michelangelo, ma che fu costretto ad acquistare quando la Wittgens si presentò con la somma necessaria, grazie ad una corale colletta che coinvolse tutti i milanesi. Un’eroina discreta, fiera e indomita per tutti quegli ebrei che furono da lei salvati, in nome di quell’umanità a cui mai rinunciò, come raccontò alla madre in una lettera dal carcere: «Quando crolla una civiltà e l’uomo diventa una belva, chi ha il compito di difendere gli ideali? Sono i cosiddetti “intellettuali”. Sarebbe troppo bello essere “intellettuali” in tempi pacifici e diventare codardi quando c’è pericolo».
(Aggiornato al 5 novembre 2024)