Il decennale della Liberazione, nell’Italia del lungo e travagliato dopoguerra, fu occasione per l’emergere di urgenze memoriali. Su tutte quella della deportazione nella galassia concentrazionaria e di sterminio nazista. “L’iniziativa della mostra del 1955, partita da Carpi e passata per oltre 50 città del Centro-Nord, sollevò un velo da questa storia, ponendo in evidenza la memoria della deportazione e non lasciando indifferenti i tanti che la visitarono. Ovunque venne allestita, suscitò dibattito e in molti vi riconobbero i compagni di prigionia”.
Ad illustrarne la portata è Marzia Luppi, direttrice della Fondazione Fossoli e curatrice assieme a Elisabetta Ruffini, nel 2005, di una “lettura critica” della mostra del 1955. Mostra itinerante, appunto, oltre che dirompente, capace di smuovere le coscienze e squarciare il velo di silenzio che ricopriva il tema. Non a caso era stata chiamata Immagini dal silenzio.
“L’esposizione, potremmo dire ora, fu un po’ artigianale e senza una coerenza o ricerca estetica – spiega Luppi – si trattava di immagini in bianco e nero, ritagli di libri e giornali, fotografie, tutto attaccato su pannelli di truciolato ordinati per i diversi campi di concentramento e sterminio. Sono questi, infatti, i soggetti della mostra. In un contesto dove la conoscenza sulla deportazione è ancora generica e confusa, l’urgenza è di far vedere, di dire: ‘Questo è successo, questo è stato’”.
Ma quale fu, appunto, il contesto in cui nacque la mostra? Quali furono la sua storia e i meccanismi che avviò? Continua la direttrice della Fondazione Fossoli: “Nel decennale della Liberazione, l’esecutivo diede disposizioni affinché si limitassero le manifestazioni di singoli enti e si promuovessero le iniziative governative. Non è un caso, dunque, che la mostra carpigiana sia stata inaugurata l’8 e il 9 dicembre 1955, nell’anniversario del conferimento a Modena della medaglia d’oro alla Resistenza”.
“A mettere in moto tutto sono alcuni familiari di ex deportati, autori di una lettera nel settembre di quell’anno inviata al sindaco di Carpi Bruno Losi, antifascista di lungo corso condannato al confino, resistente e primo cittadino dalla Liberazione. In questa si chiedeva di riportare in primo piano il fenomeno della deportazione, che a Fossoli, frazione di Carpi, ebbe a livello nazionale uno dei suoi luoghi centrali”.
“Al tempo la deportazione non era certo argomento conosciuto, tanto che Primo Levi, il cui capolavoro era stato rifiutato da Einaudi e pubblicato solo da una piccola casa editrice gestita proprio dall’ex deportato Antonicelli, parlò addirittura di tabù. Il tema della deportazione non aveva ancora investito l’opinione pubblica. Non v’era la sensibilità per ascoltare le voci dei deportati. Quel decennale della Liberazione e quella mostra fornirono così l’occasione per rendere collettivo un racconto fino a quel momento intimo e familiare, limitato al massimo alle associazioni come il Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) del colonnello Vitale o l’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti (Aned)”.
Carpi e il Modenese, pertanto, furono il luogo privilegiato per smuovere le acque, in virtù non solo della significatività del campo di concentramento di Fossoli – “l’anticamera dell’inferno”, da cui passarono oltre 5000 fra deportati politici, lavoratori coatti ed ebrei, diretti ai campi nazisti – ma anche della sensibilità lì presente per accogliere e promuovere le memorie della deportazione. “I tempi erano maturi – continua Luppi – ed in pochi mesi dalla lettera già si erano organizzati la mostra ed una grande manifestazione per l’inaugurazione”.
“In una piazza gremita, con 35.000 – 40.000 presenti e più di 25 delegazioni straniere, oltre a inaugurare la mostra nel Palazzo dei Pio si stilò un manifesto di convivenza e rifiuto della guerra, cercando di far breccia nell’Europa della Guerra Fredda, poi firmato a Modena. Difesa della pace e concordia fra i popoli, pertanto, dovevano avere nella documentazione del passato la base per la rifondazione di un futuro di pace e solidarietà”.
Da Carpi la mostra prese a quel punto la via di moltissime città del Centro-Nord. Affidata all’Istituto storico della Resistenza di Modena, l’esposizione venne riprodotta in più copie, così da poter ampliare il ventaglio di luoghi in cui mostrare la storia dei deportati. “In ogni città si raccolsero storie nuove, approfondendo la conoscenza del tema e aprendo il dibattito. Un esempio ci porta al suo arrivo a Torino, nel 1959. Qui vive Primo Levi, chimico, attivo nell’Aned già da tempo e oramai fresco della ripubblicazione di Se questo è un uomo con Einaudi. Sulla Stampa, con cui collabora, Levi risponde a una tredicenne che scrive al giornale dicendo di aver visto più volte la mostra e di essere rimasta profondamente colpita. Chiede di essere informata. Si firma come figlia di un fascista. Levi risponde con una lettera meravigliosa. Dice che questa era la lettera che attendevano i testimoni, che finalmente si era aperta per loro la possibilità di parlare e di farsi ascoltare”.
L’impatto della mostra del 1955, in viaggio per la penisola, fu fortissimo proprio per questo, spiega Luppi: la convergenza fra il desiderio dei testimoni di farsi ascoltare e la necessità del pubblico di saperne di più. “Da qui nacquero molte iniziative, come gli incontri pubblici dell’Aned a Torino in cui testimoni d’eccellenza come Franco Antonicelli, Levi, Galante Garrone, si misero a disposizione degli uditori, senza alcun racconto già costruito ma rispondendo semplicemente alle domande. La mostra, complessivamente, attivò moltissimi processi memoriali. A livello pubblico, nelle scuole, sul piano storiografico”.
Altro momento decisivo fu il 1961, quando alla mostra itinerante si affiancò quella dell’Aned. “La mostra fu riallestita a Carpi, con un grande manifestazione tenuta in occasione del centenario dell’Unità d’Italia – aggiunge Luppi – in quel caso, dal palco, il sindaco Losi richiamò alla necessità, allontanandosi dai fatti raccontati, di passare da un segno temporaneo ad uno permanente. Fu il discorso che impiantò il Museo-Monumento al deportato, inaugurato nel 1973”.
Attiva, in occasione degli anniversari, nel riallacciare i fili di un discorso aperto nel difficile dopoguerra, la Fondazione Fossoli – erede di questa tradizione – ha quindi voluto raccontare a 50 anni di distanza dalla mostra del 1955 (2005) e a 40 dalla fondazione del monumento (2013) l’impatto di quell’iniziativa. “C’era la volontà di mostrare come la memoria sia un processo che per essere avviato ha bisogno di sensibilità e persone che se ne facciano carico. Tanti sono i rischi nel fare divulgazione su questo tema e noi volevamo esprimere l’importanza dell’unitarietà delle diverse associazioni, abbracciando un arco antifascista e costituzionale, attorno al concetto di deportazione, senza aggettivi e settorializzazioni. Gli anniversari, a maggior ragione con l’esasperazione che c’è oggi nel fissare nuove date, possono avere una funzione positiva. Non bisogna limitarsi alla commemorazione, che tiene tutto a un livello emotivo e superficiale, ma cercare di produrre riflessione. Solo così potremo portare una conoscenza critica all’attenzione anche dei più distratti”.
Laureata in Filosofia, specializzata in Storia, diplomata in Archivistica, paleografia e diplomatica, Marzia Luppi dal 2008 è direttrice della Fondazione Fossoli di Carpi. Ha collaborato a ricerche di Storia della città con l’Università di Bologna e Firenze. Responsabile della didattica dell’istituto storico di Modena (2004-2007), si è poi interessata alle questioni del XX secolo e ha pubblicato diversi contributi di storia locale. Ha curato mostre, progettato corsi di aggiornamento e partecipato a convegni nazionali e internazionali sui temi della didattica, del patrimonio museale e dei luoghi di memoria.
(Aggiornato al 3 giugno 2022)