La guerra non finisce il 25 aprile o l’8 maggio 1945 ma getta i suoi oscuri e nefasti effetti ben oltre la sua conclusione.
In Trentino, le giornate insurrezionali dell’aprile-maggio 1945 se da un lato sono all’insegna della gioia per la tanto sospirata fine del conflitto, dall’altro vedono manifestarsi sia le ultime atrocità da parte dei soldati tedeschi in fuga sia alcuni episodi di violenza politica, peraltro contenuti rispetto ad altre province dell’Italia settentrionale. Le vittime sono ex fascisti o collaboratori dei nazisti, ma soprattutto donne che, colpevoli di aver ‘amoreggiato’ col nemico, vengono rasate e umiliate di fronte a una folla di partigiani e semplici cittadini. All’indomani della Liberazione, la speranza di un futuro di pace e serenità si scontra con la realtà di un territorio che ha subito gravi devastazioni nelle industrie, nelle città e nelle infrastrutture. La rete ferroviaria e stradale è sconquassata dai bombardamenti alleati e il terreno è ancora disseminato da tonnellate di ordigni inesplosi.

Manca il carburante con cui muovere i pochi automezzi esistenti e rifornire le valli periferiche. Non arriva nulla: né materie prime per le fabbriche (di fatto chiuse), né cibo (farina in primis) o altro (indumenti, carbone ecc.) che possa rassicurare una comunità già preoccupata dai rigori dell’inverno all’orizzonte.

La crisi economico-sociale e alimentare, con il diffondersi del mercato nero e del contrabbando, l’aumento della disoccupazione aggravata dal rientro di migliaia di reduci (15.000 nell’ottobre 1945), l’incertezza politica, locale, nazionale e internazionale, le fragilità dell’amministrazione pubblica, priva di risorse finanziarie con cui fronteggiare i bisogni più urgenti della popolazione, la debolezza delle forze dell’ordine e la loro perdita di credibilità nella società, causate dalla guerra e dalle complicità con il passato regime fascista, l’esistenza e la diffusione di armi da fuoco ereditate dal conflitto appena concluso, sono tutti elementi che spiegano o contribuiscono a spiegare la crisi morale e identitaria vissuta dai trentini nel dopoguerra.

Nella transizione dalla guerra alla pace, la (nuova) classe politica antifascista cerca di governare, entro i ristretti limiti concessi dagli anglo-americani, la difficile fase postbellica, affiancando un’opera di ri-educazione, politica e morale. È urgente rieducare i giovani, cresciuti nella scuola fascista e formati da slogan inneggianti alla violenza e alla sopraffazione; quegli stessi giovani che hanno attraversato gli orrori della guerra, le sofferenze della trincea e della prigionia, e ne sono stati fisicamente e psicologicamente sconvolti.

È in fondo un’intera comunità, quella trentina, che va presa per mano e accompagnata fuori dalle tenebre del conflitto. Una società impaurita e turbata, incapace di riflettere sulla guerra e sul fascismo ma anzi disposta a scindere le proprie colpe dalle politiche dei regimi fascista (1922-1943) e nazista (1943-1945) nel nome di un autonomismo esasperato, non di rado separatista, e di un sentimento anti-italiano che vede come unici responsabili delle disgrazie e delle sciagure locali l’Italia e gli italiani.
L’eredità della guerra è pesante da ogni punto di vista. Il quadro che emerge dalle carte d’archivio è quello di una comunità per molti versi scioccata, sbandata, che ha perso la capacità di distinguere il bene dal male, che stenta a ritornare a una quotidianità pacifica e pacificata. La violenza è non di rado il metro attraverso cui confrontarsi con gli altri; l’aggressività diviene l’unica via per imporre la propria volontà sugli altri in un contesto di estrema povertà materiale. Troviamo padri e madri che rubano per dar da mangiare ai propri figli; ragazzi che rapinano depositi o banche per arricchirsi rapidamente; uomini, spesso reduci di guerra, che uccidono per motivi passionali o per denaro, più raramente per vendetta politica. Per usare le parole dell’ex partigiano e, all’epoca, vicequestore di Trento Enno Donà, “la gente uscita dalla guerra in mutande, doveva rivestirsi in fretta, godere la vita, guadagnare ancora più veloce, recuperare il tempo perduto: non ammetteva difficoltà burocratiche, non potevano essere invocate, altrimenti si sarebbe agito anche contro la legge”. È insomma un Trentino attraversato da una ‘crisi di civiltà’, scatenata tanto dalla barbarie del conflitto quanto dall’educazione impartita durante il Ventennio fascista. Dagli 835 furti e rapine compiute a danno di privati e/o dell’amministrazione pubblica nel maggio-dicembre 1945, si passa gradualmente ai 145 del 1948; se nel 1945 si contano 18 omicidi, nel 1946 si raggiunge il picco di 35 fino a diminuire drasticamente negli anni successivi, cui si aggiungono 48 vittime e 50 feriti provocati dall’esplosione di ordigni e bombe, otto morti e dieci feriti per colpi d’arma da fuoco accidentali. La morte è insomma un’esperienza ancora ben presente nel dopoguerra trentino.

Solo col tempo si assisterà a un graduale ‘ritorno alla normalità’, al ripristino della legalità, con il ristabilirsi dell’autorità statale e il raggiungimento di una stabilità politica locale (gli accordi Degasperi-Gruber) e nazionale (la Repubblica parlamentare e la Costituzione). Il 1948 sarà uno spartiacque fondamentale. Per la ripresa economica, invece, bisognerà attendere il boom degli anni sessanta-settanta che, sebbene in ritardo rispetto al resto del Paese, avrà il merito di traghettare il Trentino e i trentini in un’epoca di benessere generalizzato.
(Aggiornato al 30 aprile 2025)