Centinaia di parole per chi si prostituisce, una sola per il cliente

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Nel 2019 in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la Fondazione Museo storico del Trentino, e l’Istituto Storico Italo Germanico della Fondazione Bruno Kessler organizzarono un covegno intitolato Il prezzo da pagare in cui si indagavano alcuni aspetti della storia della prostituzione e dei suoi riflessi sul presente. 

Abbiamo preso spunto da quel convegno per realizzare un omonimo programma andato in onda su History Lab con interviste a storiche e storici, esperti che studiano la tratta, forze dell’ordine, esponenti di associazioni coinvolte. A fianco a questo lavoro di documentazione  abbiamo svolto una riflessione sulle parole, nella convinzione che il linguaggio non sia mai neutro. 

I luoghi: dalle case chiuse all’indoor 
Fino al 1958, anno di approvazione della legge Merlin, le case in cui si praticava la prostituzione erano lecite e ampiamente accettate. Questi luoghi erano definiti postriboli, dal latino “prostare”, stare davanti, esposto, in vendita. Una parola che svela una profonda svalutazione delle persone coinvolte: rese qualcosa da guardare ed eventualmente acquistare. Una merce. 
Si parlava anche di bordelli, di casini, di case “chiuse”, come dovevano rimanere le finestre e le tende, in modo che, sebbene tutti sapessero, si potesse fingere di ignorare ciò che lì avveniva. Si parlava anche di case di tolleranza cioè di luoghi che lo Stato “tollerava”. Quasi che le istituzioni acconsentissero, loro malgrado, a far sopravvivere posti giudicati riprovevoli. Quanta ipocrisia in questo termine. Lo Stato fece molto di più che tollerare le case chiuse, lo Stato ci guadagnò e molti dei suoi uomini si opposero fermamente alla loro chiusura.
E oggi? Dove si pratica oggi? In strada evidentemente. Ma non solo. Esistono luoghi nascosti, non istituzionalizzati che servono a questo scopo. Visto che esistono ma non dovrebbero, non hanno un nome loro, un nome vero. Li definiamo semplicemente appartamenti. Oppure con un termine inglese ancora più asettico si parla di indoor, semplicemente “al chiuso”.

Le prostitute: centinaia di parole, tra dispregiativi e forestierismi
Nel 1979 il linguista Edgar Radtke ha raccolto da fonti scritte e orali 645 espressioni utilizzate per indicare chi si prostituisce. Anche in italiano esistono molti termini usati a questo scopo.
Ci sono parole quasi neutre, come prostituta per l’appunto, o l’antico “meretrice”, dal latino merère, “guadagnare”. Più numerose sono le espressioni connotate negativamente. Durante il dibattito sulla legge Merlin in parlamento vennero chiamate “povere donne”, “donne malate”, “donne viziose” e addirittura “donne criminali”. Ci sono poi gli insulti collegati alla prostituzione. Parolacce certo, ma anche femminili di animali che ormai evitiamo di utilizzare tanto sono diventati dispregiativi.
Abbondano anche i forestierismi cioè le traduzioni letterali da altre lingue o le parole straniere: tra questi le espressioni derivate dal francese come “bella di notte” o “cocotte” e dall’inglese come “ragazza squillo”. Divenuto celebre è il termine “escort”, alla lettera “scorta”:  questa parola all’inizio non aveva un legame con la sfera sessuale e indicava chi svolgeva la professione di accompagnatore o accompagnatrice ma alcuni casi di cronaca ne hanno fatto virare il significato. È piuttosto curioso come queste parole risultino in qualche modo più benevole, meno infamanti, di altri termini italiani o dialettali. 

Sfruttatori: dai papponi e le mammane, alle sponsor
Per indicare colui che sfrutta le prostitute si parla di magnaccia, oppure di pappone. Termini entrambi derivati dall’atto di mangiare, “pappare”. E si parla anche di protettore, o di ruffiano.
Quando esistevano le case chiuse in Italia, la donna che le gestiva veniva definita maîtresse, ruffiana, tenutaria, mammana. Oggi, le donne che controllano le ragazze nigeriane prostitute in Italia vengono dette “madam” o, con un termine stonato in questo contesto, “sponsor”.

Cliente: così semplicemente, niente di più niente di meno
In tutto questo discorso c’è una figura centrale che non ha sinonimi né termini dispregiativi a definirla. Il cliente di prostitute è semplicemente un cliente. Nulla di più. Così come si è cliente di un supermercato, di un negozio, di una banca, di uno studio qualunque. La neutralità del termine è sconcertante.  
C’è solo un’espressione che ha a che fare con i clienti e che porta con sé una certa riprovazione. È l’espressione “andare a prostitute”, declinata in genere in una versione più volgare. Un modo di dire che riguarda i clienti ma che per veicolare un giudizio negativo tira in ballo, ancora una volta, le prostitute.
Si potrebbe andare avanti, parlando per esempio di come, del tutto arbitrariamente, la prostituzione sia stata definita “il mestiere più antico del mondo”, con un’espressione divenuta nota dopo che la utilizzò Rudyard Kipling nel suo On the city wall (Jedi, 2017/1888). Già queste osservazioni però ci dicono qualcosa riguardo alla mentalità che dà forma al linguaggio. Se chi vende il proprio corpo è soggetto a uno stigma reso evidente dalle parole, chi acquista il corpo e l’intimità altrui non va incontro alla stessa sorte. Anzi. La sua persona non viene tirata in ballo, rimane anonima, celata dietro una parola altrettanto anonima. 
Prostitute a parte, la tendenza a parlare di questo fenomeno in modo asettico riguarda sempre più anche altre persone e aspetti come gli sfruttatori o le sfruttatrici e i luoghi in cui si pratica. Quasi a negare o peggio normalizzare la ferocia e la brutalità che spesso alimentano questa realtà. 

(Aggiornato al 7 luglio 2022)