È possibile nello studio della storia una “scoperta” che cambi radicalmente come guardiamo al passato?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo tener presente un aspetto di metodo fondamentale: non esiste alcun documento storico che “per se stesso” sia in grado di cambiare radicalmente ciò che sappiamo del passato, il motivo di ciò è stato espresso in un grande classico della metodologia della ricerca storica quale Apologia della storia o mestiere di storico di Marc Bloch:
«Supponiamo che di una civiltà scomparsa rimanga un solo oggetto, e che, inoltre, le condizioni della sua scoperta impediscano anche di metterlo in relazione con vestigi estranei all’uomo come le sedimentazioni geologiche […]. Sarà del tutto impossibile datare quest’unico resto e giudicare della sua autenticità. Invero, non si ristabilisce una data, non si controlla e, insomma non si interpreta mai un documento se non inserendolo in una serie cronologica o in un insieme sincronico».
Pertanto un documento storico va sempre posto in un contesto; ne consegue che le “scoperte” storiografiche consistono principalmente nell’elaborazione di nuove domande di ricerca e nella loro messa a verifica attraverso lo studio di un’ampia gamma di documenti. Su questo si costruiscono narrazioni che stabiliscono rapporti di causa-effetto tra gli eventi storici. Queste narrazioni, come tutto il processo che le origina, sono sempre orientate da quello che è il nostro vissuto nel presente, ovvero dalle esperienze e dalle visioni del mondo presenti in chi fa ricerca e divulgazione storica. L’imparzialità quindi non esiste e il dibattito storiografico si intreccia inevitabilmente con i conflitti del presente. L’onestà intellettuale e una corretta metodologia sono un utile argine contro il tentativo di falsificare i fatti del passato, ma quando la loro interpretazione diverge su aspetti importanti all’interno della comunità scientifica, lo scontro diventa inevitabilmente senza esclusione di colpi.
Ne abbiamo un esempio su un tema di importanza fondamentale non solo per la narrazione del passato, ma per la stessa identità europea: la Shoah.
Il tema ha visto la «disputa tra storici» (Historikerstreit) poco dopo la metà degli anni Ottanta del secolo scorso. All’epoca Ernst Nolte sosteneva che il lager nazista fosse “una risposta” al Gulag sovietico e ad esso comparabile. Questa visione trovò la netta opposizione di Jürgen Habermas, sostenitore dell’unicità della Shoah e della necessità di porla a fondamento della “coscienza civile” tedesca. Al dibattito partecipò anche Primo Levi illustrando nell’articolo Il buco nero di Auschwitz («La Stampa» 22 gennaio 1987) le caratteristiche uniche, “scientifiche” e frutto della “tecnica” europea che furono proprie del lager nazista. Questo dibattito intrecciava il passato (e in particolare il nazismo) con il presente in cui si svolgeva (e cioè la fase terminale della Guerra fredda). A prevalere e a forgiare la memoria pubblica tedesca nel corso dei decenni, sono state le posizioni di Habermas.
Dall’inizio del decennio in corso è però iniziata la Historikerstreit 2.0. Ad avviarla è stato lo studioso australiano Dirk Moses con il testo Permanent Security and the Language of Transgression (Cambridge University press, 2021), nel quale mette in discussione l’incomparabilità della Shoah con altri crimini contro l’umanità (ovvero metodi, linguaggi e fini dei nazisti si ritrovano in parte maggiore o minore anche in altri contesti). Dirk Moses afferma che la violenza di massa sui civili non è prodotta esclusivamente da regimi di tipo totalitario, ma anche da sistemi liberali, che l’hanno abbondantemente praticata contro i popoli colonizzati e non solo, in nome della «sicurezza permanente». Lo studioso australiano ha definito la narrazione dominante sulla Shoah «catechismo tedesco», in quanto sacralizzerebbe quell’evento sottraendolo ad ogni comparazione e quindi ponendo un limite “teologico” allo sviluppo degli studi sui genocidi.
Questo dibattito dunque appariva fin da subito abbastanza aspro. Lo è diventato molto di più ed è uscito dalla cerchia degli “addetti ai lavori” nel modo più drammatico: a partire dalle stragi di massa di civili che si sono susseguite e continuano a susseguirsi in Medio Oriente dal 7 ottobre 2023. Ancora una volta la lettura dei fatti del passato fornisce le lenti attraverso cui si guarda al presente e viceversa il presente influenza il modo in cui interroghiamo il passato. In tempi di guerre e stermini questo cessa di essere un dibattito accademico e diventa uno scontro politico e ideale.
L’idea dell’“incomparabilità della Shoah” e la sua assunzione a fondamento dell’“identità collettiva democratica” ha portato studiosi e studiose a sostenere le posizioni e le azioni del governo israeliano. Il 3 novembre 2023 Nicole Deitelhoff, Rainer Forst, Klaus Günther eJürgen Habermas hanno pubblicato sul sito dell’università di Francoforte il testo Principles of solidarity. A statement
«Il massacro di Hamas con l’intenzione dichiarata di eliminare la vita ebraica in generale ha spinto Israele a reagire. Il modo in cui questa rappresaglia, giustificata in linea di principio, viene attuata è oggetto di un dibattito controverso; i principi di proporzionalità, la prevenzione delle vittime civili e l’avvio di una guerra con la prospettiva di una pace futura devono essere i principi guida. Nonostante tutta la preoccupazione per il destino della popolazione palestinese, tuttavia, gli standard di giudizio scivolano completamente quando si attribuiscono intenzioni genocide alle azioni di Israele».
Al contrario la critica al loro approccio ha fornito ad altri studiosi e altre studiose della Shoah e dei genocidi gli strumenti per sostenere la natura coloniale e genocida dell’azione militare israeliana. Nel suo libro Gaza davanti alla storia (Laterza, 2024) lo studioso della Shoah Enzo Traverso mette in luce proprio come assolutizzare la Shoah separandola dalla storia delle altre forme di razzismo e colonialismo comporti il rischio di appoggiare i genocidi presenti e danneggiare irreparabilmente ogni etica nella nostra visione del passato, soprattutto nella nostra visione della Shoah:
«se in nome della lotta all’antisemitismo è possibile condurre una guerra genocida, molte persone oneste inizieranno a pensare che è meglio abbandonare una causa così dubbia. Nessuno potrà evocare l’Olocausto senza suscitare sospetti e incredulità; molti arriveranno a credere che si tratti di un mito inventato per difendere gli interessi di Israele e dei suoi alleati. La memoria della Shoah come “religione civile” – la sacralizzazione rituale dei diritti umani attraverso il ricordo delle vittime – perderà tutte le sue virtù pedagogiche».
(Aggiornato al 20 dicembre 2024)