Diceva Roberto Leydi, uno dei padri dell’etnomusicologia italiana, di come “la carica di realtà sociale, della vita degli uomini” andasse a innervare la canzone popolare: anche quella non dichiaratamente protestataria. Il discorso si potrebbe allargare anche alla musica non vocale, come suggeriva Diego Carpitella: anzi, l’alterità alla modernità capitalistica veniva espressa secondo lui in maniera ancora più radicale da “zampognari, launeddari, ciarameddari, organettisti”, più “conservatori” e meno inclini ai mutamenti. Anche lì, fra quelle note, era presente quella “carica di realtà sociale”, con tutte le sue difficoltà ed i suoi disagi.
Se pensiamo ad uno fra i mondi musicali più rappresentativi del ’900, il jazz, vediamo che esso ha espresso la propria carica contestatrice quasi solo in modalità non verbale e strumentale; più che mai dentro il movimento free, che fu anche il più politico: in questo caso la libertà formale raggiunta dai musicisti ed anche, a volte, l’urticante timbrica degli strumenti era un chiaro manifesto rivendicazionista. Affermava Archie Shepp, sassofonista fra gli alfieri del movimento: “Noi non siamo che una propaggine del movimento nazionalista nero (…) che è in corso di sviluppo in America”. E ancora: “Penso che proprio i Neri, attraverso la violenza delle loro lotte, sono l’unica speranza di salvare l’America”. E la bruciante poetica di Shepp risulta evidente anche all’ascolto distratto di questo capolavoro registrato nel 1966, dedicato ad un pittore afroamericano morto (a Roma) di overdose d’eroina, A Portrait of Robert Thompson (as a Young Man):
La musica più propriamente pop-rock (ma il termine, qui, veste strettissimo) si misurerà poi con tentativi anche politici di rifondarne la forma, la struttura. I gruppi europei che confluiranno nel collettivo Rock in Opposition, di orientamento marxista, punteranno anche sull’improvvisazione radicale, vista come istanza musicale rivoluzionaria. Non mancano i testi, in realtà, ma la parte extra-testuale è decisamente più importante. Sentiamo i capofila di questo movimento, gli Henry Cow (qui assieme al gruppo degli Slapp Happy), impegnati in un brano strumentale dal significativo titolo Beginning: The Long March, anno 1975.
Anche in Italia c’è in quegli anni un desiderio di rompere le strutture. Il gruppo milanese degli Area, in un contesto fortemente politicizzato, propone anche brani ai confini di quello che si direbbe oggi noise, come Lobotomia, dedicato a Ulrike Meinhof (fondatrice del gruppo armato Rote Armee Fraktion), qui da un concerto parigino del 1976. Un brano volutamente urtante e quasi doloroso per l’ascoltatore:
Di lì a poco sarebbe scoppiato il momento del punk, con tutto il suo carico di nichilismo e di provocazione anche, in un certo senso, pre-politica. Accanto ad esso prendono vita universi influenzati dalle arti performative più varie. È il caso dell’industrial, che vede uno dei nomi di punta nei Throbbing Gristle guidati dalla performer Cosey Fanni Tutti e da Genesis P-Orridge (questi attuerà poi con la moglie un programma transgender di ‘“avvicinamento” e mutazione corporea definito “pandroginia”). Qui si riversano dadaismo e Burroughs, attitudine anarchica, attenzione morbosa per gli angoli estremi della condizione umana, e conseguente ostentazione di simbologie naziste e di pratiche pornografiche. Il brano del primo singolo, Zyklon B Zombie, presenta pure un testo, ai limiti dell’intelligibile: ma ancora una volta è la musica, vescicante e rumorosa, che va a creare uno stato d’angoscia permanente, che ben si accompagna al tema dello sterminio nei campi nazisti e delle camere a gas:
Nei decenni a noi più vicini la parola, soprattutto dentro il mondo dell’hip-hop (che comunque non è soltanto parola), ha mantenuto e consolidato il posto d’onore nella denuncia del disagio e nel tentativo, anche, di formulare una protesta.
D’altra parte quei medesimi terreni di frattura sociale giovanile hanno portato in primo piano anche il suono, la musica, il ritmo, soprattutto entro i mille rivoli dell’elettronica, dalla techno dei rave a quelle forme più estetizzanti che vanno a mescolarsi col noise. Tra queste ultime vi è la proposta dei finlandesi Pan Sonic, con la loro occupazione sonora e scenica anche di spazi industriali abbandonati. Algidi e implacabili, come in questa Moottori del 1996:
Colonne sonore di mondi paralleli, sotterranei, sempre gravidi di rabbia, sempre incazzati.
E dunque infine, e per tornare all’inizio, sentiamo quanta carica di alterità, quanto di profondo e distante dall’oggi, di incompromissorio e di irrimediabilmente conflittuale, e per questo anche di eternamente ribelle, vive dentro le launeddas sarde del ciabattino Antonio Lara, miracolosamente registrato nel 1962 dall’antropologo danese Weis Bentzon, e qui impegnato nel ballo della Mediana a pipia:
(Aggiornato al 13 aprile 2023)