Berlino, ponte o confine

5 min

L’immagine di Berlino come ponte o “terra di transito” (espressione fissata in una memorabile mostra al Museo ebraico del 2012, dal titolo Berlin Transit) è inscritta nel suo stesso nome: Berlino verrebbe dalla contaminazione di due parole, quella tedesca Bär (cioè orso, evidentemente era una zona popolate da orsi, tanto che il primo regnante berlinese venne soprannominato Alberto l’Orso) e quella slava, Birlin (zona paludosa). Questo destino, votato al doppio, ha accompagnato la capitale tedesca dalla divisione delle due Prussie (orientale e occidentale) agli inizi del XVIII Secolo, fino alla cesura della guerra fredda, determinandosi poi dentro una geopolitica sempre più globale. 

L’elemento slavo e l’elemento tedesco trovano il loro perno nel continuo ridefinirsi della città, sempre attenta alle proprie due anime anche nell’ambito della memoria e della rielaborazione del passato. Ancora oggi questa determinante è inscritta nelle strade e nelle vicende della capitale federale. La riunificazione del 1989 ha generato una prospettiva certamente rinnovata e improntata alla riconciliazione, senza però poter celare quella continua tensione, necessaria al mantenersi in equilibrio tra due mondi, due culture. Le ferite emerse nel tempo, causate dal nazismo e dalla guerra fredda, si sono venute a sovrapporre a quella cesura originaria ampliandola e dando vita ad uno spazio vitale, che percorre l’intera città. È lo squarcio in cui nei decenni sono venuti a definirsi i memoriali, prima quelli dedicati alle vittime del nazifascismo e poi quelli che ricompongono in maniera dettagliata la storia complessa della dittatura comunista, certo molto meno intensa della prima ma sempre più rilevante per il dibattito odierno. 

Questo ruolo di Berlino, nel suo essere luogo di convivenza di memorie anche contrastanti non è stato imposto da nessuno: è la rilevanza stessa delle ferite storiche ad avere generato uno spazio di condivisione e rielaborazione collettiva, in cui tutti possono dare il proprio contributo ma soprattutto trovare spazio per le proprie rivendicazioni. Basti pensare all’Istituto Pilecki, voluto fortemente dal governo nazional conservatore polacco e che dal 2017 ha saputo ritagliarsi un ruolo importante nel dibattito collettivo in Germania, con una sede emblematica dinanzi alla porta di Brandeburgo e con una serie di mostre che provocano in maniera inequivocabile il dibattito tedesco sul passato della seconda guerra mondiale. In un’intervista del 2021 sullo Spiegel la direttrice Hanna Radziejowska affermava in maniera perentoria la totale ignoranza da parte dell’opinione pubblica tedesca rispetto alle vicende polacche “nel suo concentrarsi unicamente rispetto al tema della Shoah ebraica, senza considerare il genocidio di più di tre milioni di polacchi non ebrei”. Certo queste parole tradiscono l’orientamento ormai decennale del governo polacco verso una sorta di riscrittura del passato in senso nazionalistico ma lasciano intendere quanto sia ancora vivo e per nulla rielaborato il contrasto tra memorie nel centro Europa.

Tutto questo avviene parallelamente ad un posizionamento chiaramente antirusso dell’istituto, tant’è vero che lo stesso Witold Pilecki è una figura emblematica dell’orgoglio polacco: un ufficiale che fu contro l’invasore tedesco nel 1943-45 (occupandosi della stesura nel 1942 del primo documento che attestava l’inizio della shoah) e contro i russi dal 1945 fino alla sua condanna a morte per mano degli stessi nel 1948, accusato di essere una spia anticomunista. Questo spirito si è recentemente rinvigorito: l’ultima conferenza internazionale dell’Istituto dell’1-3 febbraio 2023 portava il titolo “La guerra di aggressione russa contro l’Ucraina”. Si è trattato di un evento non da poco con decine di speaker internazionali e con un chiaro orientamento pro-Ucraina, i cui interventi hanno quasi anticipato il mandato d’arresto della Corte penale internazionale del 17 marzo 2023 contro Putin; cosa non scontata vista la posizione geografica e politica estremamente critica della Polonia. 

Anche la politica polacca vista da fuori sembra piena di contraddizioni come mi racconta una collega di Varsavia, in Germania da trent’anni, sociologa e germanista: “a volte la politica del governo polacco mi sembra schizofrenica: da una parte queste rivendicazioni di stampo nazionalista, quasi autarchico, dall’altra l’evidente complicità  mai sopita di molti esponenti del governo nazionalista con gli interessi russi dall’economia di guerra all’energia”, confermata anche dal posizionamento ormai imminente delle armi nucleari da parte dell’esercito russo sul confine Bielorusso-polacco.  A pochi metri dall’Istituto Pilecki si trova proprio l’ambasciata russa, assediata negli ultimi mesi da decine di manifestazioni con migliaia di partecipanti in un movimento caleidoscopico, visto che, oltre ai tantissimi ucraini, presenti sono anche parecchi russi, degli “expat” che si trovano a prendere posizione contro il sistema putiniano. “Putin incarna un sistema imperiale vecchio di cent’anni,” dice la mia cara collega moscovita Tanja (classe 1976 come me e sempre presente alle manifestazioni), che aggiunge di non riconoscersi più nel suo paese mentre si interroga sulla sua generazione: “Dove siamo finiti noi, che abbiamo visto comparire i libri di Solschenizyn come un dono agli inizi degli anni ’90? La mia generazione è scomparsa.” 

E intanto l’ambasciata Russa è ormai inghiottita da un buio quasi apocalittico. 

Ambasciata russa a Berlino

Le luci pubbliche attorno all’ambasciata, come molte altre luminarie di bar e ristoranti sparsi per la città e fino a qualche mese fa recanti scritte quali “Moskau,” “Russki” “Soviet,” sono state spente se non cancellate drasticamente, a sottolineare un radicale isolamento del blocco russo.

Manifesti davanti all’ambasciata russa a Berlino

Berlino è stata e continua a essere il riflesso delle spaccature più radicali di quest’Europa, offrendosi però come campo di battaglia per rivendicazioni che vengono da lontano: il mio caro amico Delek chimico classe 1958, ebreo ucraino arrivato a Berlino negli anni della DDR come “contingente ebraico”, direttamente dall’Università di Mosca, si guarda attorno stranito quanto rispettoso di questo paese che gli ha dato ospitalità e un futuro. Delek riconosce il grande debito, anche personale, verso la storia democratica e il mondo liberale non nascondendo però una certa critica verso le politiche internazionali occidentali, che “esasperano il conflitto non riuscendo ad accompagnare in nessun modo quella che è la lunga transizione del blocco sovietico, che sembra quasi non finire più e che forse dovrà toccare il fondo prima di essere riparata e ricostituita, da qualche potere occupante”. 

Manifesti davanti all’ambasciata russa a Berlino
Manifesti davanti all’ambasciata russa a Berlino

È questa la posizione che forse meglio rappresenta il panorama politico berlinese, sospeso tra pronunciamenti di principio e Realpolitik. Un equilibrio complessissimo sfidato in continuazione dai tanti gruppi di emigrati, dall’Est Europa certo ma sempre più anche da Israele. È forse questa la prossima sfida della cultura memoriale e politica di Berlino? Prendere posizione rispetto alle ormai quotidiane manifestazioni di piazza di migliaia di israeliani “tutti in fuga da una democrazia in bilico”, come dice il mio collega Zvi. Probabilmente no: berlino non può che continuare “a stare a vedere”, offrendosi come spazio alle posizioni più conflittuali, in nome della democrazia e del confronto.

(Aggiornato al 24 maggio 2023)