Il governo di Unidad Popular
Nel 1970, dopo diversi tentativi, Salvador Allende, medico di Valparaíso, fondatore e leader del Partito socialista, vince le elezioni alla guida di una coalizione (Unidad Popular) formata da partiti della sinistra cattolica, socialisti, radicali, socialdemocratici e comunisti. L’ottenimento della maggioranza relativa costringe Allende a cercare il sostegno del partito cattolico della Democracia Cristiana, mossa osteggiata dalla destra e da Washington, che orchestrano un tentativo di sequestro del capo dell’esercito cileno René Schneider concluso con il suo ferimento mortale. Diversi saranno i tentativi di sovvertire il potere attraverso le forze armate, rimaste comunque in questa fase imparziali custodi della democrazia. Questa è la posizione di Carlos Prats, successore di Schneider.
La via cilena al socialismo
Il 10 novembre 1971 il presidente cubano Fidel Castro atterra all’aeroporto di Santiago, accolto dal governo cileno. È l’inizio di un lungo viaggio diplomatico, ma soprattutto il simbolo dell’allontanamento dall’influenza statunitense, forte di cospicui investimenti economici e abbondanti prestiti. Di contro, Allende prospetta la costruzione di una società socialista attraverso la democrazia, la cosiddetta “vía chilena al socialismo”, accelerando la “cilenizzazione” – cioè la nazionalizzazione – delle industrie, in parte già avviata dal governo precedente. La nazionalizzazione delle miniere di rame, principale risorsa del Paese, e l’agognata riforma agraria sono le più importanti misure adottate da Unidad Popular. Il clima nel Paese, intanto, è infuocato dagli scontri fra sinistra e destra, acuiti da una situazione economica sempre più difficile. Diverse categorie scendono in piazza per protestare, su tutti i camionisti che contestano la nazionalizzazione delle società di trasporti, mentre le opposizioni accusano Allende d’aver sovvertito l’ordine costituzionale. Fallito un primo tentativo di golpe militare nel giugno ’73 (“Tanquetazo”) grazie alla strenua contrarietà di Prats, nuove trame cospirative prendono avvio a inizio agosto su iniziativa dell’Aeronautica e della Marina. Questa volta però, l’argine del democratico e lealista capo dell’esercito, dimessosi per le contestazioni interne, non ci sarà.
Il golpe militare dell’11 settembre 1973
Nella prima mattinata dell’11 settembre, da Valparaíso giungono notizie di movimenti di truppe. Allende, raggiunto il palazzo presidenziale de La Moneda, telefona immediatamente al nuovo capo dell’esercito Augusto Pinochet, non ricevendo però alcuna risposta. Raccomandato personalmente dal predecessore Prats, Pinochet è conosciuto come apolitico; da settimane, in realtà, è coinvolto nelle trame militari che puntano a deporre Allende e a imporre un regime autoritario supportato da Washington. Di fronte al secco rifiuto del presidente socialista di lasciare la presidenza e il Paese, alle 11.30 La Moneda, circondata dai mezzi militari, è colpita dagli aerei con trentasette bombe incendiarie. La resistenza armata dei sostenitori del governo è piegata e il presidente Allende, piuttosto che consegnarsi, si suicida. Alle 18, la giunta militare presieduta da Pinochet dichiara d’aver preso il controllo e impone lo stato d’assedio. Quasi due anni dopo, di fronte alla Commissione del Senato, il segretario di Stato degli Stati Uniti Henry Kissinger dichiarerà che il golpe cileno è stato organizzato con il sostegno della Cia.
La repressione
Assunto il comando, la Junta de Gobierno avvia nel Paese una violenta campagna repressiva volta a eliminare intellettuali e attivisti sostenitori delle sinistre di Unidad Popular. Migliaia di persone sono ammassate in campi di prigionia e tortura improvvisati, tra cui il più tristemente noto nello Stadio Nacional di Santiago. Migliaia sono coloro che, sfuggiti alla morte, prendono la via dell’esilio. La repressione, però, non si ferma ai confini del Paese: il 28 novembre 1975, infatti, per iniziativa della Cia diversi Paesi sudamericani aderiscono all’Operazione Condor. L’obiettivo è consolidare il potere dei regimi autoritari, proseguendo la “guerra sporca” attraverso l’eliminazione mirata degli oppositori politici. Protagonista di queste operazioni è il capo dei servizi segreti cileni (DINA) Manuel Contreras: è lui a ispirare e organizzare gli attentati dinamitardi che uccidono a Buenos Aires il vecchio capo dell’esercito Prats (30 settembre 1974) e l’ex ambasciatore negli Usa Orlando Letelier (21 settembre 1976).
“Los milagros económicos” e la “normalizzazione”
La conquista del potere da parte della giunta militare significa per il Cile una netta inversione in campo economico. L’iperinflazione e l’altissimo debito pubblico spingono a adottare una “terapia dello choc”, attraverso l’imposizione delle misure neoliberiste della “scuola di Chicago” di Milton Friedman. Dopo una fase di fisiologico crollo, l’economia cilena prende il volo. È il primo “milagro económico” (“miracolo economico”) che consentì al Paese una crescita straordinaria del Pil. Alla ricetta neoliberista, negli anni ’80 la Junta affianca una “normalizzazione” del contesto politico. Nel 1981 entra in vigore la nuova Costituzione, nel 1985 Pinochet chiude con la Democracia cristiana un accordo per la transizione alla democrazia che porta nel giro di due anni alla riapertura dei registri elettorali e all’eliminazione del bando sui partiti (ad eccezione, chiaramente, del partito comunista). La Junta ricorre comunque alla repressione: il 3 aprile 1987, a Santiago del Cile, papa Giovanni Paolo II, in visita pastorale, assiste al soffocamento delle proteste di piazza. Nel settembre dell’anno successivo, per la prima volta dal ’73, i partiti possono svolgere una campagna elettorale per l’imminente referendum a cui sono chiamati milioni di cileni. Il 5 ottobre si sfidano infatti la coalizione favorevole alla permanenza di Pinochet e la Concertación de Partidos por el No, unione di sedici organizzazioni politiche sostenitrici del ritorno alla democrazia.
Il ritorno alla democrazia
Il 6 ottobre 1988, nonostante qualche dubbio, Pinochet riconosce la sconfitta nel referendum. La vittoria del No con il 54,68% dei voti porta così alle prime elezioni libere, fissate per il 14 dicembre 1989, in cui ottiene la maggioranza il candidato della Concertación Patricio Alwyn. L’11 marzo dell’anno successivo, lo stesso Pinochet passa il testimone al nuovo presidente, dando avvio alla difficile transizione alla democrazia. L’influenza dell’esercito e del vecchio dittatore sono infatti ancora molto forti, fra palesi continuità con il regime, prove di forza per fermare le riforme e mancate occasioni per fare giustizia. Nel 1990, nondimeno, il governo Alwyn dà vita alla Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione, sfociata nove mesi dopo nella lettura dei risultati in televisione: l’Informe Rettig, dal nome del giurista che ha presieduta la Commissione, stabilisce che fra il golpe del 1973 e il 1990 vi furono 2130 casi di violazione dei diritti umani e 168 di violenza politica. In base ai risultati dei lavori di questa e altre commissioni la cifra di vittime dirette della repressione si può stimare in oltre 31.500 persone, di cui 3227 furono uccise o fatte sparire. Al numero indeterminato di oppositori passati per i centri clandestini di detenzione e tortura, vanno poi aggiunte circa 200.000 persone costrette all’esilio. Per tutto questo Pinochet, come i vertici del regime, non verrà mai condannato. Malato e costretto in sedia a rotelle, nei suoi ultimi anni riuscirà a sfuggire ai processi intentati all’estero e in patria, morendo nel suo letto il 10 dicembre 2006.
(Aggiornato al 27 settembre 2023)