Di che pasta siamo fatti

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“Dopo la seconda guerra mondiale noi italiani ce la siamo cavata con poco, mentre ai tedeschi è rimasto attaccato lo stigma del loro essere malvagi. Eppure noi italiani combattemmo per molto tempo accanto ai tedeschi… e sapete perché? Perché noi abbiamo un cibo fantastico!”
Con questa battuta fulminante il comico italoamericano Mike Vecchione apriva qualche tempo fa i suoi spettacoli di stand up comedy proprio nei locali della Little Italy di New York, una delle città a più alta concentrazione di emigrazione italiana, ormai secolare.
Il boato di approvazione che immancabilmente saliva dal pubblico, in gran parte italoamericano, basterebbe a dimostrare l’inscindibile legame tra cibo e identità italiana in un’ottica globale. Un’identità talmente forte da scavalcare anche temi particolarmente complessi per il Paese che inventò il fascismo e che ebbe severe responsabilità negli orrori della seconda guerra mondiale.
Ma per molti in giro per il mondo gli italiani sono il loro cibo e, in subordine, la loro arte e il loro paesaggio.
La pasta, in particolare, ha accompagnato insieme alla pizza la messe di definizioni che il popolo italico si è sentito appioppare (e una che più volentieri di altre ha accettato) tra quelle che costituiscono l’immaginario dei pregiudizi nazionali.
Si va dal sempiterno “maccaronì”, con cui venivano apostrofati gli emigranti italiani in Francia (questo tipo di pasta ha avuto molta fortuna nel “battezzare” gli italiani nel mondo, se pensiamo al Makaroniarz polacco, o ai Maccarrone australiano),  a “Spaghettifresser”, “mangiaspaghetti” con cui si sentivano chiamare gli italiani in Germania e nella Svizzera tedesca, o anche molto più semplicemente “Spaghetti”, diffuso in tutto il mondo, con la variante americana “Spagèti”, con la “g” dolce. Un fiorire di epiteti che hanno al centro la pasta e la maniacale precisione con cui gli italiani sembrano distinguerne i vari tipi a partire dalle dimensioni e dalle (vere o presunte) proprietà di cottura. In alcune parti del mondo c’è ancora chi si stupisce dell’espressione di orrore che assume l’italiano medio quando vede piatti in cui l’italianissimo pesto è servito su altrettanto italianissimi ditalini rigati.
Il paradosso di questo tipo di nazionalismo gastronomico è che, a ben vedere, la pasta è tradizionalmente italiana tanto quanto il kilt è tradizionalmente scozzese. Vale a dire poco o nulla, se si risale indietro nei secoli.

Lavorazione della pasta fresca, da Bartolomeo Scappi, Opera, Venezia, 1570.

Gli storici dell’alimentazione hanno già da tempo specificato che la pasta, vale a dire l’alimento fatto di farina, acqua e sale, è conosciuta e diffusa fin dall’epoca preistorica in tutte le civiltà che conoscono la coltura del grano. La mangiano greci, romani, ma anche i cinesi e altri popoli asiatici. Dopo un calo nel Medioevo, pare sia la Campania dell’età moderna, regione granaria fortemente popolata e soprattutto vicereame spagnolo, a riprendere lo sviluppo dell’arte culinaria basata sulla pasta e a portare in tavola quella fantastica intuizione che unisce un frutto proveniente dal Nuovo Mondo con l’impasto alla base dell’alimentazione partenopea: la pasta col pomodoro.
Ma la pasta come alimento è conosciuta e diffusa in praticamente tutto il bacino mediterraneo. Con l’Unità d’Italia sembra essere da principio più una caratteristica regionale che non un elemento di amalgama: quasi un simbolo divisivo che richiama il passato borbonico a cui non a caso, in maniera per lo più spregiativa, si contrappone la visione dei conquistatori sabaudi mangiatori di un’altra farina, quella di mais; i “polentoni” del nord.
Il fascismo cerca di spezzare il monopolio pastario in Italia, che rende il Paese dipendente dalle importazioni granarie, proponendo coltivazioni alternative dove possibile, come ad esempio il riso nel vercellese, ma con scarsi risultati.

Fabbrica di maccheroni, Palermo inizi Novecento.

Nonostante tutti gli sforzi è la pasta, più dei mille di Garibaldi, a unificare il Paese.

Nel dopoguerra il cinema consacra l’alimento bandiera degli italiani nel mondo: l’Alberto Sordi di “Un americano a Roma” (1954) proclama la propria italianità assaltando un piatto di pasta.

Alberto Sordi in “un americano a Roma” (1954).

Ma per quale motivo questa identificazione ha così tanto successo? Certo, la pasta accompagna l’emigrazione italiana e ne fa un tratto distintivo molto appariscente. I “mangia spaghetti” sono riconoscibili e, nel loro cibarsi di un alimento tutto sommato povero, incasellabili. Ma a differenza di altri stereotipi altrettanto forti, quello della pasta ha una caratteristica fondamentale per essere universalmente accettato. Per tornare alla battuta di Mike Vecchione, la pasta “è buona”. E buono, cioè positivo, diviene lo stereotipo caratterizzante. Quantomeno migliore degli altri. Meglio mangiatori di pasta che mafiosi o pigri mandolinisti. Perché la pasta piace e da alimento esotico diviene uno dei primi piatti della cucina globale. Esserne i rappresentanti, anzi, gli universali custodi, dà agli italiani un’identità comune positiva e riconosciuta. Da qui la costruzione di una sorta di culto misterico, per iniziati, in cui l’elaborazione del piatto diventa arte sacra, così come liturgici diventano la scelta del formato, il condimento, il tempo di cottura. E questo culto produce a suo modo dei peccati: tra tutti, uno dei più gravi è spezzare gli spaghetti per farli stare in pentola.
Quella italiana è stata per lungo tempo un’identità di emigrazione e, quindi, invasiva per le società di arrivo. La necessità di uno stereotipo positivo che facilitasse l’accoglienza ha fatto sì che la pasta diventasse un biglietto da visita spendibile da chi partiva per dimostrare di non essere una minaccia. Con un piatto di pasta, spesso, si è combattuta la xenofobia.
Non si può dire che gli italiani abbiano inventato la pasta per come la conosciamo, ma è vero il contrario: la pasta ha in qualche modo inventato gli italiani per come vengono riconosciuti nel mondo.

(Aggiornato al 25 febbraio 2025)