Dimmi da chi ti vesti e ti dirò chi sei

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Potremmo partire dal principe Harry.

Era il 2005 e il secondogenito di re Carlo III pensò bene di andare a una festa in maschera vestito da nazista.

Un atto in sé di semplice cattivo gusto finì al centro dell’attenzione mondiale: Harry, già all’epoca sotto i riflettori per alcune gaffe minori, non solo era un personaggio pubblico particolarmente attenzionato dai media, ma era uno degli eredi al trono d’Inghilterra, il Paese che combatté per mesi, da solo, la furia nazista. La nazione che più di altre mitizzò nel secondo dopoguerra quella vittoria che coincise con la fine dell’impero britannico e del Regno Unito come superpotenza planetaria. Insomma, un tasto a dir poco sensibile per l’opinione pubblica britannica. Era solo un costume, nemmeno troppo accurato, che non voleva avere altro significato se non quello di essere parte di uno scherzo mal architettato. Eppure, fece esplodere uno scandalo che segnò per sempre la figura dell’attuale duca di Sussex.

Travestirsi, in un tempo di immagine esposta come quello attuale, non equivale mai a coprirsi, ma sempre più spesso significa comunicare. In una società dove sempre più “l’abito fa il monaco”, la scelta di mostrarsi vestendo determinati panni implica un corollario piuttosto ampio di significati.

Che esibire un costume porti con sé un possibile messaggio pubblico è evidente: si prenda come esempio estremo le disgustose sfilate di persone in divisa da deportati durante le manifestazioni contro le restrizioni per la pandemia. Dei semplici travestimenti sono riusciti a catalizzare in maniera potente un messaggio semplice e diretto, con un effetto comunicativo devastante e difficilmente replicabile con altri mezzi.

Fortunatamente c’è chi questa forza comunicativa decide di incanalarla per accompagnare momenti formativi, come ad esempio nelle rievocazioni storiche che accompagnano manifestazioni pubbliche, anniversari e momenti di memoria collettiva. Un sempre più ampio movimento di storici e appassionati sta infatti dimostrando attraverso eventi rievocativi che l’idea di “vestirsi coi panni del passato” ha, oltre a una innegabile base di divertimento per chi lo pratica, anche una funzione sempre più riconosciuta e riconoscibile nei confronti dell’educazione storica divulgativa.

Entrato a far parte a buon diritto del vasto movimento che va sotto il nome di public history, il mondo della rievocazione contribuisce alla diffusione della conoscenza storica e dei molteplici aspetti del passato attraverso i molti significati che “travestirsi” porta con sé. Mettersi nei panni, letteralmente, di persone non più esistenti, significa non solo riproporre i loro modi di vita ma, in maniera sempre più accurata, mostrare la loro esistenza e, con una buona dose di emotività, “riportarli in vita”. Un’operazione semantica che però non sempre può sperarsi neutra.

Certo, assistere alla rievocazione di uno scontro tra cavalieri in armatura può essere un’esperienza forte ma difficilmente attualizzabile. L’emozione che si prova è simile a quella che scaturisce dall’ascolto di una favola o dalla visione di un film.

Ma non tutto scorre sempre così liscio.

Le rievocazioni della battaglia Boyne, che nel 1690 segnò la conquista dell’Irlanda da parte degli inglesi, sono oggetto di scontri ogni volta che l’attualità politica e sociale dell’Irlanda del Nord rende queste rievocazioni un catalizzatore di violenza.

Allo stesso modo nel Sud degli Stati Uniti le rievocazioni delle battaglie della guerra civile in cui vinsero i secessionisti che combattevano per il mantenimento della schiavitù aumentano periodicamente le tensioni tra bianchi e neri.

La rievocazione, come momento di ricostruzione filologica di un pezzo di passato attraverso la sua riproposizione scenica, è un vero e proprio atto di interpretazione storica, per certi versi simile alla classica analisi storiografica delle fonti e alla loro critica. Un “saggio dal vivo”. Ed esattamente come per il saggio di interpretazione storica, una rievocazione messa in atto nel luogo sbagliato al momento sbagliato – o nel luogo giusto al momento giusto – non può sottrarsi a un possibile uso pubblico o addirittura politico.

Nel 2015 in Trentino e in Sud Tirolo, ad esempio, esplose la polemica attorno a una scelta “di costume” da parte delle compagnie Schützen.

Molte compagnie eredi ideali delle milizie territoriali asburgiche, durante cerimonie pubbliche o momenti di celebrazione sono solite esibirsi in salve d’onore con armi da fuoco. Quando si scoprì che i gruppi regionali avevano adottato come arma da parata il fucile Mauser 98k, un tipo di carabina opportunamente modificato ma già in uso presso i reparti della Wehrmacht, esplose la polemica. Gli Schützen vennero accusati di riesumare con la loro scelta un triste capitolo della storia locale. Tanto più, si diceva, che in punta di filologia uniformologica il Mauser 98k non era l’arma di ordinanza delle milizie territoriali austriache. La scelta di questa particolare carabina era quindi, si dedusse, una presa di posizione: gli Schützen volevano sfilare con le armi dei nazisti. Le compagnie si difesero negando qualsiasi vicinanza a idee totalitarie e sottolineando che quel tipo di fucile era semplicemente abbastanza diffuso, economico, simile a quelli del tempo e facilmente modificabile per essere trasformato in arma da cerimonia.
Della cosa si occupò la politica nazionale, che sancì poi con un’apposita legge il diritto degli Schützen a portare l’arma.

Ovviamente non si trattò di una semplice questione di accuratezza storica: le cerimonie dei bersaglieri tirolesi venivano e vengono lette anche come espressioni politicamente significative e come tali possono suscitare le polemiche tipiche dell’attualità. Un uso politico della storia.

La forza evocativa delle rievocazioni storiche porta con sé la necessità di essere consci che la scelta di argomenti, modi e tempi di esecuzione è un vero e proprio messaggio diretto al pubblico che assiste, e come tale deve essere calibrato se non si vuole lasciarlo in balìa delle strumentalizzazioni.

Una rievocazione, come qualsiasi momento di costruzione di memoria collettiva, non è né sarà mai un atto neutro nel momento stesso in cui questo atto viene esposto a un pubblico con la funzione di farlo entrare in contatto con la storia.

Per questo, dopo averla riconosciuta come fonte di storia, è necessario che questa particolare forma di esibizione si sottoponga alle regole della metodologia della ricerca storica non solo per quanto riguarda l’accuratezza ma anche per quanto riguarda quella che, con una punta di romanticismo, definiremo “sincerità”.

(Aggiornato al 9 febbraio 2023)