Trento. Anno del signore 1475, 23 marzo (Giovedì Santo per i cristiani, Pasqua per gli ebrei). La città è in maggioranza di lingua italiana, con una comunità tedesca e una piccola presenza ebraica, circa trenta persone divise in tre famiglie. A reggere il potere, sia spirituale che temporale, è il principe vescovo Giovanni Hinderbach.
È appena scesa la sera quando i genitori del piccolo Simone denunciano la scomparsa del loro figlioletto di circa due anni e mezzo. Scatta l’immediata perquisizione delle case della comunità israelitica, concluse senza alcun risultato. Dopo tre giorni, però, sono gli stessi ebrei a denunciare il ritrovamento di un corpicino nella “roggia” (uno dei fossati dentro le mura della città) che corre di fronte alla sinagoga; e da qui partono gli arresti e gli interrogatori, nel corso dei quali gli ebrei confessano sotto tortura l’uccisione del piccolo Simone.


Quindici di loro vengono immediatamente messi a morte, con sentenza eseguita in nove casi tra il 21 e il 23 giugno e in sei casi il 3 novembre. I loro beni vengono confiscati. La comunità ebraica di Trento cessa ufficialmente di esistere.
Il 2 settembre 1475 era intanto arrivato a Trento il teologo domenicano e vescovo di Ventimiglia Battista de’ Giudici, incaricato da papa Sisto IV di riferire sul processo in corso.
L’indagine, però, viene ostacolata dal vescovo Hinderbach; a de’ Giudici non si permette né di parlare coi detenuti ancora in vita né di accedere ai verbali dei processi, di cui poté prendere visione solo dopo quindici giorni dal suo arrivo a Trento. Leggendoli, il domenicano si rende conto che le confessioni sono state estorte agli imputati attraverso un uso della tortura considerato eccessivo anche dalla giurisprudenza del tempo.

Proprio per questo si convince dell’inconsistenza delle accuse e chiede la liberazione degli imputati ancora in vita, oltre al ristabilimento della verità.
Tuttavia, il fanatismo popolare, alimentato sapientemente dall’abile propaganda del principe vescovo – che si avvale di uno strumento di recentissima diffusione cioè testi e immagini a stampa – è ormai impossibile da arginare. In questo clima, al piccolo Simone si attribuiranno ben 129 miracoli entro l’agosto 1476.
Tra il 20 maggio e il 30 giugno 1479 Hinderbach presenta formale domanda di canonizzazione del presunto martire, beatificato un secolo dopo, nel 1588, da papa Sisto V. Da quel momento, ogni 24 marzo, con cadenza decennale, le vie di Trento si animano in una processione con cui si mostrano ai fedeli il corpicino del martire e i presunti strumenti di tortura dei suoi assassini.


Devono passare quattro secoli dalla beatificazione perché il “caso del Simonino” venga finalmente riaperto. È il 1964 e nel clima riformatore del Concilio Vaticano II uno studio del teologo tedesco Willehad Paul Eckert, commissionato dal vescovo di Trento, monsignor Gottardi, porta alla rimozione del culto. A guidare questa campagna è l’instancabile sacerdote e studioso Iginio Rogger. La decisione, infine, viene resa pubblica il 28 ottobre 1965: per le vie di Trento non sfilerà più la processione per il piccolo Simone, i luoghi del culto vengono chiusi al pubblico.

Uscita dai riflettori, la vicenda del Simonino entra nel dimenticatoio, finché nel 2007 il docente di Storia del Medioevo dell’israeliana Bar-Ilan University Ariel Toaff pubblica il libro Pasque di sangue, ebrei d’Europa e omicidi rituali, edito in Italia per il Mulino. Nel testo, Toaff avanza l’ipotesi – senza affrontare nello specifico la vicenda in questione – che gli ebrei condannati e uccisi a Trento abbiano davvero effettuato un rituale che prevedeva l’uso di sangue umano. Scoppia il finimondo: all’unica recensione entusiasta su Il Corriere della Sera da parte dello storico Sergio Luzzatto (“Quelle Pasque di sangue”, 6 febbraio 2007) seguono stroncature da ogni parte, anche dallo stesso Rogger. L’autore, colpito dalla reazione della critica, fa un passo indietro e ritira il libro dal commercio, ripubblicandolo in una seconda edizione, uscita l’anno successivo, in cui le affermazioni più controverse vengono riviste.
Una decina di anni dopo, nel dicembre del 2019, la questione torna al centro del dibattito con la premiata mostra del Museo Diocesano di Trento, intitolata L’invenzione del colpevole. Il “caso” di Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia, in cui la vicenda viene ripercorsa con dovizia di documenti. L’iniziativa suscita il plauso della presidente delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni, oltre che un notevole successo di pubblico. Di contro, alcuni intellettuali trentini in una lettera riservata inviata al vescovo di Trento Lauro Tisi criticano l’intenzione della direttrice del museo Domenica Primerano di rendere la mostra permanente, riaprendo al pubblico (ma solo a gruppi guidati da operatori museali) la cappella di San Pietro dove, fino al 1965, era conservata la salma di Simonino.

Secondo i critici, tutto ciò “porta con sé il rischio di scatenare fanatismi mai sepolti”. Da parte sua il vescovo tace mentre la musealizzazione della cappella viene bloccata. Nonostante, nel settembre 2021, la mostra abbia ricevuto il prestigioso Grand Prix degli European Heritage Awards/Europa Nostra Awards, massimo riconoscimento europeo conferito nel settore del patrimonio culturale, Primerano rende pubbliche le sue dimissioni dal Museo Diocesano. La storia del caso Simonino, che possiamo considerare il “padre di tutti i complotti”, ha così attraversato i secoli fino a irrompere nella contemporaneità e nei suoi conflitti.


(Aggiornato al 17 ottobre 2022)