Il racconto dell’isola “che non c’è”

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“Tutto quello che sappiamo sull’Irlanda lo abbiamo imparato malgrado gli irlandesi”.

Si potrebbe sintetizzare in questo modo, parafrasando una battuta che gira in rete attorno alle sorelle Kardashian, lo stato dell’immaginario globale attorno all’isola dell’Atlantico e ai suoi abitanti.
Una porzione di terra protesa verso un oceano che per millenni è il confine stesso del mondo. Un luogo misterioso, di nebbie che avvolgono ancora oggi il nome dei suoi primi abitanti. Un posto nato per essere l’altrove di narrazioni ben più potenti e diffuse, che per secoli è stato oggetto, e non soggetto, di racconto.
L’Irlanda “entra” nella storia insieme a chi, senza conoscerla, provò per primo a costeggiarla: confusa nei racconti degli intrepidi navigatori greci e fenici con altre isole semileggendarie, per molto tempo fu scambiata per Thule, la mitica terra della fine del mondo. I marinai che giuravano di averla scorta in lontananza spesso non venivano creduti. 

Nel primo secolo dopo Cristo, Hibernia –  questo il nome che le diedero i romani, derivante da “inverno” o, forse, dal gaelico “paese fertile” – entrò, col suo nome imposto, nel novero delle terre realmente esistenti. Tolomeo nel secondo secolo disegnava approssimativamente le coste di quell’isola accanto alla Britannia romana, di cui l’impero romano, pur sempre affamato di spazi, non valutò mai seriamente l’occupazione (eppure, scriveva il generale romano Agricola, “sarebbe bastata una sola legione” per sottometterla).
È chi giunge da fuori che la racconta, attraverso il contrasto dei propri costumi rispetto a quelli trovati. San Patrizio porta il cristianesimo in Irlanda nel 432: un’invasione culturale, che spazza via e getta nell’oblio quel che c’era prima; il cristianesimo pretende di essere l’unica possibile verità, distruggendo e negando ciò che era stato prima. 

Da qui sembra partire la “storia” di un’Irlanda di cui si fantastica come luogo selvaggio, in cui quel che conta è sempre l’occhio dell’esploratore: l’Irlanda è sempre e soprattutto “verde” e gli unici abitanti degni di nota sono i monaci che resistono in questa terra impervia; un’isola “eremo” che per tutto il medioevo sparge santi missionari sul continente.
Periferia apparentemente silente di un continente impegnato a costruire la propria identità, questo estremo Occidente subisce l’invasione normanna, trauma che insegna agli isolani a guardare al mare come fonte di pericoli e agli stranieri che l’Irlanda “non vale la pena di essere conquistata”. 
Poi, nel dodicesimo secolo, ha inizio l’assimilazione inglese. Il papa di Roma, la cui fede tanto deve al mezzo millennio di resistenza culturale dei monasteri irlandesi, dona l’isola a Enrico II d’Inghilterra che ne fa il terreno di conquista della corona inglese. Otto secoli di tentativi di assimilazione, massacri e distruzioni che furono per alcuni storici la palestra in cui si esercitò e formò nelle proprie linee di tendenza il colonialismo inglese.
L’Irlanda rimane per secoli la zona selvaggia nel “giardino di casa” della corona britannica, in cui mandare in esilio personaggi invisi a Londra e in cui ogni tentativo di sfruttamento economico passa necessariamente dall’importazione di coloni considerati “fedeli”. Interi villaggi di Inghilterra, Galles e Scozia vengono deportati in Irlanda per avviare una colonizzazione delle terre strappate ai locali. 
Quando nel 1541 Enrico VIII eleva l’Irlanda a regno e se ne proclama sovrano, l’isola appare ancora un luogo di violenza, in cui gli indigeni si ostinano a parlare gaelico, l’incomprensibile lingua nativa, e in cui la sovranità inglese non è garantita al di fuori delle grandi città e delle guarnigioni di occupazione. Irlanda luogo di punizione, di esilio e oblio, distante da Londra e dal cuore degli inglesi quanto e più delle nuove colonie in giro per il mondo. Terra indomita e caparbia, viene vista sempre con sospetto ogni volta che la Gran Bretagna scende in guerra: la Spagna imperiale, la Francia dei Borboni e di Napoleone e perfino la Germania Guglielmina e il Terzo Reich hitleriano sono sospettate di voler fare della verde isola la base per un attacco all’Inghilterra e di conseguenza, a volte non a torto, la popolazione locale viene guardata con diffidenza e punita per sospetto tradimento.

Quando la Gran Bretagna, sconfitto Napoleone, si accinge a vivere il suo secolo di trionfo, nel grande racconto vittoriano l’Irlanda rimane in disparte, angolo povero e dimenticato di un’assimilazione che gli inglesi stessi sentono di aver fallito. Gli irlandesi che “costruiscono l’impero” lo fanno come bassa manovalanza o, tutt’al più, quando riescono a scalare le vette del potere, da irlandesi divengono “britannici”.
La brutale carestia delle patate che travolge la popolazione dell’isola nell’Ottocento  dà il via a un’emigrazione che fornisce un nuovo punto di vista, sempre esterno, a questo Paese. 

Esso diviene in breve il posto della nostalgia, mitizzato come tutti i luoghi da cui si emigra. La popolazione di origine irlandese del Nord America diventa una realtà economica e culturale che proietta sull’antica madrepatria gli stereotipi del paradiso perduto: sempre verde, sempre brulla, eppure casa. Distante dalla frenesia delle metropoli nordamericane, l’Irlanda del mito dell’emigrazione diventa un sogno semplice e lontano; una cartolina da appendere al frigo, con croci di pietra e brughiere ventose.

L’Irlanda, che fino a tutto il Ventesimo secolo ha combattuto un’aspra battaglia per l’indipendenza dal dominio britannico, ha pagato il peso del racconto pubblico che le si era formato attorno con delle contraddizioni palesi. La prima a perdersi è l’unità territoriale: l’isola è divisa tra un nord ancora inglese e un sud che definisce se stesso “la vera Irlanda”. Spezzata anche l’omogeneità culturale, con un faticoso lavoro di riscoperta (e a volte di pura invenzione) di un’irlandesità che sia il più possibile distante dal racconto coloniale inglese, a partire dalle parole, che però non possono fare a meno di rendere la complessità storica di questo paese, a partire dal suo nome: Eire, il nome gaelico dell’isola, è una parola che ironicamente parla anch’essa di conquista (Eriu è il nome della dea che aiuta i gaelici a strappare l’isola a più antichi abitanti, a cui va sommata l’etimologia dell’antico norvegese che sta per “terra”). 

Costretta ad assistere al massacro fratricida tra protestanti e cattolici nelle contee del nord rimaste alla Gran Bretagna e segnata dal peso di questa incertezza politica, l’isola non può fare a meno di vedersi imposto un racconto di sé confezionato da altri, anche perché è di altri la lingua che la racconta: le glorie letterarie del Paese, come Oscar Wilde, James Joyce o Samuel Beckett, scrivono tutti nell’idioma degli invasori, e dopo la Brexit Dublino è divenuto uno dei luoghi in cui gli studenti europei vanno a studiare l’inglese senza bisogno di visto.

Oggi l’Irlanda racconta se stessa anche attraverso questa brutale contraddizione, simbolo e vittima di un lungo processo di Nation Building per sottrazione, che ne fa il Paese raccontato ma troppo spesso non ascoltato. Un luogo che ancora fatica, nell’immaginario pubblico, ad uscire dalla cartolina.

(Aggiornato al 18 aprile 2024)