È il 1891. Vestita nel nero del suo lutto ultra decennale, la regina di Gran Bretagna e Irlanda e imperatrice delle Indie presenzia alla Royal Naval Exhibition di Londra su una sedia a ruote spinta dal fedele Abdul Karim, il domestico/confidente indiano. Il percorso tra i moli è stato adattato alle esigenze della sovrana attraverso la predisposizione di rampe e la rimozione degli ostacoli.
La donna più potente della terra, a capo del più vasto impero globale, destinata a segnare col suo nome un’intera epoca, quella vittoriana appunto, si lascia guardare dai propri sudditi e ritrarre dai feroci tabloid britannici nella propria condizione di persona impossibilitata a muoversi autonomamente. Una vulnerabilità esposta, che raramente si era potuta osservare in un’età venata di positivismo; un periodo in cui la medicina è impegnata a misurare il corpo umano per definirne, lombrosianamente, la “norma”, e chi ne esce viene caricato dello stigma di “anormale”. Il 1891 è anche l’anno in cui muore Phineas Taylor Barnum, che con il suo celebre circo aveva esposto al pubblico ludibrio persone con deformità o disabilità, i freak. Un triste simbolo della brutale tirannia della norma e dell’avversione per il diverso all’apice dell’imperialismo.
Che la sovrana si mostri pubblicamente nella propria fisicità non conforme è un passo significativo per la presa di coscienza dell’esistenza di un mondo altro rispetto a quello considerato maggioritario.
Certo, l’immaginario popolare accetta con maggior facilità l’idea di una donna anziana che rappresenti col suo corpo un’idea di fragilità e conseguentemente delle necessità specifiche – basti pensare che il nipote della regina Vittoria, il Kaiser Guglielmo II, passa tutta la vita cercando di nascondere una patologia al braccio sinistro, più corto e inerte – ma ciò non toglie che le immagini della regina in sedia a rotelle siano una delle prime occasioni, presentate da una posizione di amplissima visibilità, in cui alla società occidentale, che sta diventando di massa, si pone il tema dell’accessibilità e dell’inclusione nello spazio pubblico.
In questo tipo di tematiche la visibilità è tutto: uno dei maggiori ostacoli da superare di fronte al tema dell’accessibilità è quello, appunto, di riuscire a farne un tema. Perché chi non è costantemente messo di fronte al disagio di vivere in un mondo che non è pensato per accoglierlo non riesce, solitamente, nemmeno a percepire il problema.
Di più: le questioni riguardanti la possibile fruizione di spazi pubblici o momenti di aggregazione da parte di tutti spesso non sono facilmente identificabili perché chi è coinvolto nel tema non ha voce sufficiente per farsi sentire.
In questo senso è emblematico il punto di svolta costituito dalla prima guerra mondiale: un conflitto altamente tecnologico, che impegna e sviluppa le conoscenze scientifiche e canalizza ogni forza disponibile delle società coinvolte. La prima guerra “moderna e totale” della Storia.
Uno scontro immane, che produce un’identità di massa e quindi un senso di omogeneità (tra gli storici c’è chi dice enfaticamente che l’Italia nasce a Caporetto) ma anche, drammaticamente, una spaventosa quantità di “non conformi”. Decine di migliaia di reduci i cui corpi, dilaniati dalla guerra, tornano in una società che non ha i mezzi, e spesso la volontà, di riaccoglierli. Anzi, in molti casi essendo, come in Germania, il simbolo vivente della distruzione della guerra e della sua inutilità, si tentò di relegarli ai margini, nascosti alla vista dove, fin dai tempi degli ospizi medievali, si considerava fosse il loro posto. Ma proprio grazie al proprio sacrificio bellico, tra loro ci fu chi riuscì a essere megafono per la diffusione delle tematiche di inclusione e accessibilità.
Uno dei pionieri di questo nuovo atteggiamento è Aurelio Nicolodi. Nato nella Trento austriaca nel 1894, fervente irredentista, allo scoppio della guerra si arruola nell’esercito italiano. Nel luglio del 1915 viene ferito in uno scontro nei dintorni di Gorizia e perde la vista.
Da quel momento, forte di una medaglia d’argento al valor militare conquistata sul campo e deciso a non essere relegato tra gli “scarti della guerra”, Nicolodi si adopera per l’assistenza ai commilitoni resi ciechi dal conflitto approfondendo le tematiche riguardanti l’inclusività e l’accessibilità. Nel 1920 fonda quella che nel tempo diverrà l’Unione Italiana Ciechi, con un nucleo di ex combattenti pronti a farsi sentire per veder riconosciuto il proprio “sacrificio per la patria”. Col tempo l’associazione allargherà le sue funzioni, dall’assistenza ai ciechi di guerra a tutte le altre tipologie di cecità e ipovedenza, e diventa l’apripista sui temi dell’accessibilità.
Quello di Nicolodi è il tentativo, riuscito, di prendere la parola e di mantenerla all’interno del dibattito pubblico, ponendo al centro la questione dell’Alterità e facendone una delle cifre della costruzione del vivere civile. Una questione che poi, grazie a una costante sensibilizzazione, si allarga comprendendo tutte le forme di disabilità e i loro bisogni specifici.
Grazie alla forza propulsiva dell’Unione Italiana Ciechi, l’Italia sviluppa nel tempo una delle legislazioni più attente in quest’ambito relativamente al mondo della scuola e del lavoro: la legislazione sull’inclusione scolastica, ad esempio, nel secondo dopoguerra pone l’Italia all’avanguardia con la chiusura dei cosiddetti “istituti speciali” per disabili e la costruzione di percorsi inclusivi all’interno del panorama scolastico.
Anche grazie allo sviluppo di questo tipo di sensibilità che permette di riformulare la vecchia equazione diverso=anormale è possibile negli anni settanta affrontare il tema del disagio mentale, arrivando alla legge 180 del 13 maggio 1978, la cosiddetta legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi.
Uno slancio che negli ultimi anni si è forse affievolito, ma che ha fatto dell’Italia, per lungo tempo, un modello da imitare e un obiettivo da raggiungere.
(Aggiornato al 15 novembre 2023)