Quello che le date non dicono

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Gli archivi e in generale le fonti storiche sono grandi serbatoi di fatti che “raccontano” a chi li sa ascoltare una particolare visione del passato. Essi riescono con la propria “voce” a costruire spezzoni di memoria in chi nel presente presta loro orecchio. Ma, come ricorda un grande storico del Novecento italiano, Claudio Pavone, anche il silenzio degli archivi è in grado di raccontare molte cose. Nel recupero e nella salvaguardia del passato la scelta di cosa eliminare è altrettanto significativa della scelta di cosa tenere.
Questo assunto, fondamentale per comprendere il modo in cui i singoli e le comunità gestiscono il ricordo del proprio passato, è vero anche per le ricorrenze e gli anniversari. In quello che si potrebbe definire il calendario civile di uno stato esistono infatti dei momenti in cui, per decisione più o meno condivisa di chi ha il potere di stabilire cosa si  debba ricordare o  cosa no (politica, enti intermedi, gruppi di pressione pubblica organizzati), tutta la comunità è invitata a fermarsi e “ricordare” determinati avvenimenti. Una sorta di costruzione a freddo di uno schema relativo a cosa nel passato sia importante e cosa no. Per quanto riguarda l’Italia è indicativo che nel corso del tempo alcune date si siano solidificate nella memoria pubblica e altre non vi siano riuscite. La serie di mancati momenti di memoria pubblica istituzionalizzata è significativa delle scelte che il Paese ha fatto, o non ha fatto, per raccontare se stesso nel tempo. È in questi silenzi che, a ben vedere, si nascondono le maggiori difficoltà riguardanti l’interpretazione di quel processo sempre  complesso che vede il presente impegnato a “selezionare” il passato.
L’Italia ad esempio ha incastonato nel proprio calendario civile date di rinascita istituzionale come il 2 giugno, ma non ha trovato spazio per celebrare ogni anno la data della sua unificazione, il 17 marzo.

Una “dimenticanza” certamente molto eloquente che costringe a porsi la domanda riguardante le origini stesse della struttura dello Stato italiano, che vuole ricordare la propria rinascita più della propria nascita.
A partire dagli anni duemila una maggiore attenzione all’importanza della memoria istituzionalizzata ha aperto le porte all’esperienza delle giornate della Memoria prima (27 gennaio, istituita nel luglio 2000) e del Ricordo poi (10 febbraio, istituita nel marzo 2004). Due date importanti, che hanno segnato il dibattito sulla memoria pubblica degli ultimi vent’anni e che comunque sono, anch’esse, frutto di scelte che portano alla luce alcune memorie lasciandone inevitabilmente in ombra altre. Il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di Auschwitz, ha dato un respiro europeo al ricordo delle vittime dello sterminio dell’Uomo sull’Uomo, ma ha al contempo accantonato un’altra data che pure era tra quelle proposte per ricordare le tragedie del secondo conflitto mondiale: il 16 ottobre 1943, giorno del primo rastrellamento nazifascista degli ebrei di Roma.

Ovviamente il 27 gennaio è una data che comprende anche le sofferenze delle comunità ebraiche italiane e come tale la memoria ufficiale del Paese la inquadra, ma non è tuttavia inutile chiedersi se questa scelta abbia in qualche modo spostato il focus, impedendo una più diretta presa di coscienza del coinvolgimento degli italiani nello sterminio. Auschwitz rappresenta l’orrore continentale, nel cui racconto è inevitabile che i protagonisti negativi siano soprattutto i nazisti, per collocazione e dimensione dei fatti ricordati. Questo spostamento del fulcro di memoria può favorire, in una certa misura, l’identificazione del 27 gennaio come giorno della Memoria delle brutalità “soprattutto” naziste, lasciando ad altri, italiani compresi, il ruolo tutto sommato meno pesante di comprimari.
Allo stesso modo la scelta del 10 febbraio, giorno della firma del trattato di pace del 1947, se da un lato ha inteso portare alla luce e ricordare pubblicamente le vittime italiane delle, come dice la legge, complesse vicende del confine orientale, dall’altro pone un tema che spacca con la propria complessità la memoria comune: ricordare principalmente le vittime italiane di una vicenda la cui complessità e spazialità trascende il periodo che la legge intende ricordare, non rischia di lasciare nella memoria pubblica l’idea che le vittime di questa tragedia siano solo italiane o, peggio dal punto di vista della realtà storica, che la popolazione italiana sia fatta solo di vittime?

In questo contesto altre proposte per l’istituzione di giorni di memoria che controbilancino questa possibile  narrazione (il 6 aprile ad esempio, giorno dell’invasione della Jugoslavia da parte delle truppe dell’Asse) e le difficoltà oggettive che esse incontrano nell’essere approvate o anche solo prese in considerazione raccontano di quanto pesino, nella memoria pubblica, i motivi per cui si vuole ricordare. I silenzi, anche in questo caso, parlano, anzi, urlano nel loro mutismo. 
Chiunque si avvicini al tema della memoria pubblica deve necessariamente porsi anche il problema delle pubbliche amnesie, perché il fatto è che ricordare, e dimenticare, non sono mai azioni neutre, ma sono scelte, più o meno consapevoli, che condizionano il modo in cui si racconta il passato e, di conseguenza, si imposta il futuro.

(Aggiornato al 3 giugno 2022)