Il Muro sembra ancora essere una delle attrazioni più forti di Berlino, ma anche qui, come per molti altri luoghi della capitale tedesca, si ha spesso la sensazione di rincorrere una chimera.
A trent’anni di distanza dalla sua caduta, della cinta muraria di 155 chilometri è rimasto ben poco: 1300 metri della East Side Gallery e qualche centinaio di metri in alcuni punti del centro attorno a Checkpoint Charlie e lungo la Bernauerstrasse. Quella che però sembra sempre riemergere è una certa aura del muro, generata dall’apparente infinita proliferazione dei suoi frammenti. Quando la cortina di ferro iniziò a sgretolarsi nei giorni della “Rivoluzione pacifica” del novembre 1989 furono a migliaia le persone che si mobilitarono per aggredire e smontare fisicamente con picconi e martelli quella barriera guerrafondaia e lacerante, fino al giorno della “caduta ufficiale” ovvero il 13 giugno 1990.
Il muro, nelle sue “tre fasi” generazionali (filo spinato, mattone e calcestruzzo a partire dalla metà degli anni ‘70), aveva rappresentato una scissione radicale del popolo e della storia tedesca. Certo erano gli anni della guerra fredda e la divisione della Germania è da comprendere all’interno delle tensioni più ampie di un conflitto europeo e in maniera estesa mondiale. Fu però quel muro fisico a segnare nella quotidianità la radicalità della Guerra fredda. Il muro fu per ventotto anni realtà politica e riflesso vivente dei meccanismi più brutali del conflitto mondiale, ponendosi soprattutto per la popolazione di Berlino Est come un fronte invalicabile e mortale.
La possibilità improvvisa dell’abbattimento e della cancellazione di quei blocchi di cemento, tipici nella loro forma ad “L”, larga 120 cm ed alta 3,60m (la cosiddetta “Grenzmauer 75”), la picconatura diretta di quella barriera, il suo demontaggio…: quelle azioni passarono alla storia come un evento epocale, inscrivendosi nella memoria collettiva con un portato di “lotta per la libertà”, “lotta alle dittature” e “democratizzazione”, durato per almeno due generazioni.
I pezzetti di muro hanno rappresentato per quasi tre decenni il senso di una liberazione globale del mondo occidentale, dalla dittatura e dalla soppressione delle libertà, diventando reliquie sacrali, simulacro di un nuovo mondo fatto di un senso di abbattimento dei confini e coinciso con la stagione della “globalizzazione” e di un rinnovato anticomunismo. L’esplosione del muro si è espansa per tutto il globo, giungendo a pezzi nei centri di cultura più disparati, dal Brasile all’Australia.
Col passare del tempo però si è assistito ad un progressivo svuotamento di senso di quegli elementi murari più o meno grandi. È come se il muro non esprimesse più il senso di una storia universale.
La crisi della globalizzazione e delle promesse del capitalismo, il ritorno delle tensioni tra blocchi mondiali e forse anche i passaggi intergenerazionali hanno creato una distanza sempre più ampia tra il senso vivente di quella storia e i frammenti di cemento che dovrebbero portarne memoria. In questo senso è curiosa anche la faccenda dell’originarietá dei pezzi di muro, esplosa nel 2012, che ha costretto il geologo Ralf Milke a stabilire un patentino di autenticità dei pezzi , quando “fino a qualche anno fa nessuno si sarebbe posto il problema”.
Gli anni passano e l’aura della caduta del muro di Berlino si sta dissolvendo, per colpa non delle picconate ma di una perdita di significato, uno svuotamento di senso. Le reliquie del muro ormai imballate nelle varie confezioni regalo, nei porta chiavi o nei cava tappi a forma di muro si stanno trasformando in feticci, di cui tra poco nessuno ricorderà più il significato.
In gioco non è chiaramente il valore monetario dei milioni di pezzi venduti dal 1989 ma il senso della storia che essi rappresentano: la loro perdita di significato coincide con mutamenti nell’ordine del discorso politico, soprattutto in Germania, trovando la loro esplicazione più evidente in un revisionismo costante del senso della fine della Guerra fredda. Lo svuotamento di senso dell’aura del muro trova una corrispondenza nel montare costante di una sfiducia verso la riunificazione, ormai dato di fatto certo, ma sempre più capro espiatorio delle narrazioni destroidi e nostalgiche propagate dal partito Alternative für Deutschland dal 2013. Dopo l’ubriacatura globale del “nuovo mondo” post muro stiamo assistendo ad un regresso politico che vuole il ritorno ad un’idea identitaria, murata e fatta di confini, in cui i “frammenti di muro” rischiano di non trovare più la loro collocazione.
(Aggiornato al 26 settembre 2024)