La cucina è fondamentale non solo per il soddisfacimento di un bisogno primario, ma anche perché segna la nostra identità e scandisce le nostre relazioni. Nell’atto del cucinare infatti le identità al tempo stesso si perpetuano e si trasformano, con percorsi ibridi, contraddittori e complessi, che toccano la dimensione individuale, familiare e collettiva, le appartenenze nazionali, regionali e religiose.
Per cercare esempi di come questo avvenga nella vita quotidiana, ho intervistato due amiche che conosco ormai da anni, ciascuna con un’esperienza migratoria nel proprio vissuto. Una è Rebeh Harkati, ha 46 anni, è nata in Tunisia ed è di religione musulmana. Ha cittadinanza italiana e vive in Trentino da più di 15 anni, lavora come aiuto-cuoca in una mensa scolastica. L’altra è Monica Tessaduque, cittadina pakistana di 45 anni, arrivata in Italia 5 anni fa, di religione cattolica. Monica ha insegnato sociologia nel paese d’origine e oggi è ricercatrice presso il dipartimento di Sociologia dell’ Università di Trento.
Ho scelto di intervistarle proprio per la diversità della loro origine e del loro percorso di vita: la prima cucina sia per la propria famiglia che per lavoro, viene da un Paese da secoli interconnesso con l’Italia (tra le due guerre mondiali erano circa 100.000 i migranti e le migranti italiani in Tunisia) e quindi con un costante scambio anche culinario con essa; la seconda invece, cucina solo per la propria famiglia e viene da un Paese molto più lontano con piatti molto diversi da quelli italiani.
A entrambe ho domandato: «Cos’è per te il cucinare?»
Rebeh Harkati:
«La cucina parte dalla necessità di riempire la pancia ma appunto perché riguarda un bisogno così fondamentale diventa parte importante della vita delle persone. Per me è un’attività divertente, amo cucinare, non lo faccio per forza. Io ho scelto di fare della cucina il mio lavoro, infatti ho fatto un corso per il personale delle mense e lavoro in una mensa scolastica. Ma già prima la cucina per me era una cosa importante. Ho imparato a cucinare da mia madre e poi ho aggiunto alle sue ricette qualcosa di mio. E sto ancora imparando, ad esempio attraverso YouTube. Sia quando ero in Tunisia che adesso condivido molte ricette con vicine e amiche. Devo dire che nella cultura tunisina c’è l’abitudine di condividere i piatti tra vicini di casa, cosa che ho fatto molte volte anche in Italia. L’età non ti impedisce di imparare ricette nuove.
Cucinare è anche il modo per esprimere il mio amore per la famiglia o gli amici, credo sia molto
importante condividere il cibo e godersi il momento. E credo anche sia molto importante il sentimento con cui si fa da mangiare, è una cosa da cui dipende il risultato, cioè il sapore dei piatti che prepari. Quando cucini c’è un’energia invisibile che viene trasmessa da te a quello che prepari, attraverso l’aspetto e il gusto, questo naturalmente influenza chi lo mangia.
La cucina per me è uno spazio in cui mi rilasso. Quando entro in cucina mi sembra di entrare su un campo di battaglia, perché ho ancora in testa tutti i pensieri della giornata (i miei tre figli, il lavoro, le spese, eccetera) e devo pensare a cosa fare. Ma quando inizio a cucinare riesco a rilassarmi, mi sembra di poter affrontare meglio tutto, una cosa alla volta come faccio preparando il cibo. Infatti quando cuciniamo per noi stessi o per altri ci poniamo un obiettivo raggiungibile, è quella che scientificamente viene definita “attivazione comportamentale”, una cosa che viene usata per trattare la depressione e l’ansia.Io amo fare tanti piatti diversi mentre ascolto musica e mi rilasso, la cucina per me è uno spazio in cui riesco ad esprimermi senza ansia».
Per Monica Tessaduque prevale l’aspetto familiare e privato del cucinare:
«Cucinare mi aiuta ad esprimere il mio amore e la cura nei confronti della mia famiglia, dei miei amici e di quelli che mi stanno più a cuore. Vengo dal Pakistan e culturalmente sono molto legata all’idea che il cibo che si mette in tavola debba avere sia un aspetto presentabile che un sapore gustoso. Sono abituata ad usare molte verdure fresche e a fare ampio uso di spezie. Personalmente non mi piacciono le verdure e i condimenti che si trovano solitamente nel supermercato qui in Italia, per questo li compro nei negozi pachistani».
Proprio la distanza tra la cucina italiana e quella pakistana porta una continua ibridazione tra le due. Quando ho chiesto a Monica se ci sono ricette pachistane che aveva trasformato da quando era arrivata in Italia e viceversa ricette italiane da lei riadattate, mi ha detto:
«Praticamente tutte. I miei figli si sono abituati alla cucina italiana e adesso trovano troppo piccante quella pachistana, quindi devo “italianizzarla”, mettendo meno spezie e soprattutto meno peperoncino o peperoni piccanti, spesso presenti nei cibi tipicamente pachistani, aggiungendo più pomodoro. Sono abituata ai piatti di un bel colore rosso, come ad esempio l’Aloo gosht, un piatto tipico con patate e carne di manzo immersi nel sugo speziato.

Quando invece faccio la pasta, un piatto che ho iniziato a fare spesso qui in Italia, aggiungo un po’ di spezie pachistane, lo stesso faccio con la carne di pollo».
Rebeh invece cucina sia piatti tipici tunisini che italiani, ciascuno con una propria evoluzione.
«Una ricetta tipicamente tunisina è la tajin. Questo termine è usato in altri paesi del Nordafrica per indicare piatti diversi dalla nostra tajin tunisina, che in Italia è tradotta spesso con “frittata” o “torta salata”. Nella versione originale, diciamo “base”, ci sono pollo, patate fritte, prezzemolo e formaggio, tutto preparato a parte, poi mescolato con l’uovo e messo in forno.

Nel corso degli anni ho iniziato a farne una versione un po’ più elaborata: la tajin el bey, cioé al posto del pollo c’è la carne macinata, dopo averla messa in forno si aggiunge sopra uno strato di spinaci e la si rimette in forno. Poi di nuovo si aggiunge uno strato di ricotta e si rimette in forno per altri dieci minuti. Prima di mettere nei piatti si decora con pistacchio.

Quanto ai piatti italiani li ho imparati già in Tunisia. Lì abbiamo sempre avuto rapporti stretti con l’Italia e quindi abbiamo condiviso anche molte ricette, senza variazioni significative. Per esempio, ho sempre fatto la pizza o la pasta al forno esattamente come si fa in Italia. L’unica differenza è che faccio il ragù senza sfumarlo con il vino».
Personalmente posso confermare che la pasta al forno di Rebeh ha un sapore identico a quella di mia madre, che è della provincia di Ferrara. Lei, trasferitasi in Trentino 27 anni fa, ha in cucina approcci simili a quelli di Monica e Rebeh. Da un lato conservazione dei piatti tipici ferraresi cercandone il miglioramento attraverso scambi con amiche e parenti, dall’altro “emilianizzazione” dei piatti tipici trentini appresi da mia nonna paterna, ad esempio aumentando la quantità di lucanica e parmigiano presente nei canederli. La cucina è anche questo: una pratica di conservazione e al tempo stesso di ibridazione della propria identità, nella sua dimensione più intima e concreta.
(Aggiornato al 25 febbraio 2025)