«Da buon riformista, io non ho mai negato le possibilità e necessità rivoluzionarie. Non già quelle che dovrebbero di punto in bianco sostituire il mondo socialista al mondo capitalista, o il mondo dei buoni a quello dei cattivi; ma quelle certamente che ci fanno evitare un maggior male, e che mirano a sbarazzare il terreno del progresso socialista da alcuni particolari ostacoli, da alcune particolari croste, che resistono sebbene al di qua o al di sotto si sia formata una gran forza opposta; e occorre lo scoppio di violenza.
Così ieri per ottenere le libertà statutarie.
Così domani contro il militarismo».
Così scriveva Giacomo Matteotti nell’articolo Contro la guerra: dal punto di vista del nostro partito. Pubblicato nella prima metà di febbraio 1915 sul n.3 di Critica Sociale, la rivista della corrente riformista del Partito Socialista Italiano.
Si era a circa tre mesi prima dell’ingresso del Regno d’Italia nella Prima guerra mondiale e la posizione di Matteotti è netta: ci sono situazioni in cui occorre la violenza rivoluzionaria. Non nell’illusione che questa possa portare all’instaurazione «del mondo dei buoni», ma per evitare «un maggior male», cioè l’ingresso dell’Italia in guerra (che sarebbe costato 1 milione e 200.000 vittime tra militari e civili).
Emerge da quest’articolo un aspetto del pensiero del dirigente socialista che spesso è stato volutamente messo in ombra: la sua netta intransigenza in termini di fedeltà ai principi dell’internazionalismo socialista e alla classe lavoratrice. Nella sua concezione i mezzi da utilizzare nella lotta politica dipendevano dal contesto. “Violenza” o “legalità” erano strumenti che andavano valutati in base a situazioni concrete e che dovevano essere messi al servizio di valori universali, che riguardavano tutti i popoli del mondo.
«Per noi la patria ha esclusivamente significato se equivalga a libertà, ad autonomia di un popolo che vuole dettarsi le proprie leggi. Per ciò ci è indifferente se vuole dire semplicemente sostituire un padrone ad un altro eguale […].
Noi siamo per la libertà di tutte le patrie a cominciare da quelle che noi abbiamo violate: la Tripolitania e la Cirenaica».
Affermò nel suo intervento nel corso della prima riunione del neoeletto Consiglio provinciale di Rovigo, il 19 marzo 1915. Queste parole erano in risposta agli interventisti. I valori che si pongono alla base dell’agire politico valgono per tutti e tutte, anche per le persone che abitano fuori dall’Europa, oppure non valgono per nessuno.
Ma, proprio perché la violenza poteva essere solo un mezzo per evitare guai maggiori, non andava eletta a sistema, né tantomeno a passaggio inevitabile per la realizzazione del socialismo. In polemica con i comunisti scrisse su La Giustizia del 23 gennaio 1923:
«Respingiamo la collaborazione al governo con i partiti borghesi.
Ma respingiamo anche assolutamente l’uso della violenza, la quale può essere soltanto un mezzo di difesa contro la reazione, la controrivoluzione, il fascismo, e non mai un mezzo ordinario di lotta civile».
Alla valenza universale dei valori di riferimento faceva da contraltare una dimensione di forte concretezza e di condivisione delle lotte quotidiane dei braccianti della Val Padana e in particolare del Polesine, la zona in cui era nato e in cui era stato eletto nelle amministrazioni locali, prima che al parlamento nazionale. Durante il suo intervento alla Camera dei deputati del 31 gennaio 1921 Matteotti difese le forme di lotta impiegate dalla sua base sociale:
«Per i nostri patti agricoli un padrone ha l’obbligo di impiegare tanti contadini. Spesso contravviene e li respinge. Allora la Lega [organizzazione sindacale di base] giustamente domanda, che sia pagato ugualmente, sotto forma di multa, ciò che il padrone non ha pagato ai contadini per il loro lavoro. È logico, è l’esecuzione di un contratto. […]
E i boicottaggi? Anche questi possono essere stati qualche volta male usati, ma non sempre; non si fraintenda.
Un padrone non osserva i patti, non impiega il numero dovuto di contadini. Che cosa delibera allora la Lega? Non vi darò più manodopera! Quest’è, di solito, il boicottaggio, giusto ed entro l’orbita della legge».
Nel corso dello stesso intervento parlamentare disse che lui aveva invitato gli iscritti al Partito socialista e ai sindacati a non reagire con la violenza allo squadrismo fascista ma aggiunse anche che se la violenza squadrista fosse continuata la reazione della classe lavoratrice sarebbe stata naturale ed inevitabile:
«Non pensate che questi lavoratori che si sono visti assaliti per le strade perché hanno un distintivo, perché appartengono alle leghe, coltiveranno un pensiero di vendetta contro il padrone che passa per la strada, che va alla sua casa, che circola per il paese? Pensateci, onorevoli rappresentanti della borghesia capitalista».
Era questo mix di saldezza valoriale, concretezza, legame inscindibile con la classe lavoratrice della propria terra a rendere Matteotti una figura intollerabile all’Italia fascista del 1924; ma al tempo stesso, sempre questo mix di concezioni politiche e attitudini personali, lo rende “istituzionalizzabile” solo come innocuo “santino democratico” e non come persona in carne ed ossa nell’Italia del 2024.
(Aggiornato al 5 novembre 2024)