Parole al megafono

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Nel pamphlet L’egoismo è inutile. Elogio della gentilezza (minimum fax, 2014) George Saunders racconta l’illuminante storia dell’uomo col megafono. Un uomo si presenta a una festa: “non è l’ospite più intelligente […] né il più navigato, e nemmeno quello che si esprime meglio”. Però ha un megafono: difficile non ascoltarlo, la sua voce sovrasta le altre e “la sua retorica diventa la retorica di riferimento”. Parlando al megafono, l’uomo è costretto a limitare la complessità dei suoi discorsi, ingabbiandoli nel suo lessico ristretto. “In sostanza, ha imposto un tetto massimo di intelligenza alla festa”.

Chi è l’uomo col megafono che parla per slogan? È davvero un guastafeste? E perché molte delle sue frasi-manifesto hanno superato la prova della storia? 

A tenere in mano un megafono sono, almeno simbolicamente, i potenti. Dai pulpiti di ogni angolo del pianeta hanno rivolto alle folle i loro slogan, pervasivi e persuasivi. Pensiamo ai presidenti americani. Dal “Why not?” di Robert Kennedy nel 1968 al “Yes we can” della prima campagna elettorale di Barack Obama nel 2008; fino a “America first” che ha attraversato addirittura un secolo e due schieramenti politici, contribuendo sia alla rielezione del democratico Woodrom Wilson nel 1916 che alla vittoria al fotofinish del repubblicano Donald Trump nel 2017. E che dire di “Un impegno concreto” del primo Berlusconi o del “(Mandiamoli) tutti a casa” dei 5 Stelle, che vale al movimento il 25% di preferenze in parlamento?! Si tratta di frasi lapidarie e di uso comune, quasi banali, ma fortemente motivazionali e scandite in prima persona (dicendo “io”, “noi”, la nostra nazione).

Motto della campagna presidenziale di Obama, dal discorso alle primarie dell’8 gennaio 2008

Sembrano studiate a tavolino con il cesello del marketing pubblicitario, pronte a essere stampate su spillette, cappellini, magliette. Eppure, a volte, sono frutto del caso. Come dimostra uno dei discorsi più famosi del ventesimo secolo. “I have a dream”. Martin Luther King sale sul palco al Lincoln Memorial di Washington e parla per 11 minuti: sta leggendo il discorso che ha sistemato fino alle tre del mattino, quando dal pubblico la sua amica Mahalia Jackson, cantante gospel, gli urla “Parla del sogno, Martin”. A quel punto King mette da parte i fogli e pronuncia quelle quattro parole: le ha già usate altre volte ma dette qui, davanti a 250.000 persone e “con la cadenza della Bibbia” come scrisse The New York Times, quelle parole cambiano il corso della storia. “I have a dream”.
Il megafono è però anche il simbolo, per eccellenza, di quella “presa della parola” che ha caratterizzato le manifestazioni di piazza nella seconda metà del Novecento. È lo strumento con cui scandire un nuovo attivismo politico.

Il megafono usato durante una manifestazione studentesca del 1968 – Foto Paolo Padova (Fondazione Museo storico del Trentino)

Il movimento studentesco, prima, e i movimenti per i diritti civili, poi, hanno contribuito a cambiare radicalmente le forme della protesta pubblica, anche a ritmo di parole e slogan fantasiosi, dissacratori, sboccati. Generazioni di giovani li hanno urlati insieme nei cortei o scritti su muri, tazebao, volantini in ciclostile, striscioni. Se ne trovano liste ricchissime online (non del tutto affidabili, per la verità); perfino un libricino con gli slogan del maggio parigino (disponibile in francese qui: Petit livre de – Les slogans de 68 (LE PETIT LIVRE) (French Edition) – PetitLivre-LesSlogansDe68.pdf (quellidel68.it)).

A differenza delle campagne elettorali e dei discorsi politici ufficiali, questi slogan hanno contenuti più complessi e una loro distintiva ritmica. Abbondano di verbi (“vietato vietare” o “vogliamo pensare”), di metafore e immagini astratte (“dare l’assalto al cielo”), di parole ricorrenti come mantra (rivoluzione, potere, lotta). Non lesinano in assertività e imperativi: dal “siate realisti, domandate l’impossibile”, preso a prestito dal Caligola di Albert Camus (Gallimard, 1958), al celebre e discusso “l’utero è mio e me lo gestisco io” del movimento femminista. I miei preferiti sono le massime di vita, come “lavorare meno, lavorare tutti” di matrice sindacale, “Jouissez sans entraves” (godetevela senza freni) dal maggio francese, “Don’t trust anyone over 30”, nato all’interno del Free Speech Movement in California e finito anche in Stai zitto, brano di Salmo del 2018.

Una delle tante frasi del Movimento Studentesco Trentino sui muri di sociologia – Foto Paolo Padova (Fondazione Museo storico del Trentino)

C’è infine un lato cupo, per così dire. Sono gli slogan declinati in negativo degli anni della contestazione, che suonano come un avvertimento, o addirittura come una minaccia (ne parla Nicola Guerra in questo bell’articolo: Full article: Il linguaggio degli opposti estremismi negli anni di piombo. Un’analisi comparativa del lessico nelle manifestazioni di piazza (tandfonline.com)). I bersagli sono la DC e i suoi leader, i fascisti, le forze dell’ordine, i borghesi, da una parte; i compagni rossi, i giovani libertini, dall’altra. Si possono leggere quasi in forma di dialogo, un telefono senza fili che viaggia dalla sinistra radicale all’estrema destra e ritorno: 

“Pagherete caro, pagherete tutto”.

“Compagno maiale, per te finisce male”.

“Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi”.

“Colpirne uno per educarne cento”.

“Contro le squadre di Almirante parole poche, legnate tante”.

“Lotta dura, senza paura”.

“Se vedi un punto nero spara a vista, o è un carabiniere o è un fascista!”.

“Se vedo un punto rosso sparo a vista, o è un cardinale o un comunista!”.

Lo slogan diffuso, in una certa veste grafica, da Joachim Roncin, direttore artistico di Stylist a poche ore dalla strage del 7 gennaio 2015

Se le massime di vita campeggiano tra le Top Quotes su Pinterest e Instagram, il linguaggio politico dell’odio riecheggia oggi nelle esternazioni pubbliche dei leoni da tastiera. Anche se gli slogan più potenti degli ultimi anni sono senza dubbio quelli esplosi con il tam tam della rete dopo gli attentati terrostici in Francia (“Je suis Charlie”) – eco lontana di “Ich bin ein Berliner” (io sono un berlinese) pronunciato da Kennedy nel 1963 in segno di solidarietà per i berlinesi divisi dal muro – o durante le proteste per l’omicidio di George Floyd (“I can’t breathe”). In un misto di solidarietà e indignazione. 

Le parole non sono mai soltanto parole. E così gli slogan. Chi prende in mano un megafono dovrebbe tenerlo a mente. Perché rischia di rovinare a tutt* la festa.

(Aggiornato al 7 luglio 2022)