C’è un’ombra perenne e cupa che sovrasta un piccolo paese dell’Appennino romagnolo. È quella del suo più illustre cittadino, il fondatore e capo del fascismo Benito Mussolini. Si tratta di Predappio, borgo di poco più di 6.000 anime, alle porte di Forlì. Andarci – o semplicemente passarci – difficilmente può prescindere dalla triste ipoteca che lo grava.
Basta infatti passeggiare per le sue strade alberate, che si inerpicano verso l’interno, per inciampare nell’onnipresenza fascista. Che sia una casa-museo, l’architettura della parte nuova del paese, ai piedi del borgo medievale, o i tanti negozi che della memoria del fascismo hanno fatto un business, non c’è scampo. Eppure l’impressione è che i cittadini del luogo vi abbiano fatto il callo. Era il 2017 quando l’allora sindaco del Partito Democratico Giorgio Frassineti, interrogato sulla proposta di legge Fiano – con cui il solo possesso dei souvernir fascisti verrebbe punito con la reclusione da sei mesi a due anni in quanto “propaganda del regime fascista e nazifascista” – esprimeva perplessità, giudicando più importante “un investimento in cultura e conoscenza” (cioè l’allestimento del museo sul fascismo) piuttosto che vietare e punire i possessori di un “accendino con il fascio littorio”. Posizione legittima, se vogliamo, ma che di fatto avrebbe finito per salvaguardare lo sfruttamento economico della massa che ogni anno accorre in pellegrinaggio per omaggiare l’illustre concittadino. Il tutto nelle “canoniche” date del calendario fascista: il 29 luglio, genetliaco di Mussolini, il 28 ottobre, anniversario della Marcia su Roma, e – perché no? Giusto per sfregio – pure attorno al 25 aprile.
Mi è capitato, al di fuori di queste date, di andare a visitare Predappio. Nella canicola agostana, sotto un sole che spaccava le pietre, la presenza di quell’ombra si faceva comunque sentire. E questo nonostante per le assolate strade predappiesi ci fossimo praticamente solo io e il mio sventurato amico, trascinato a vedere quel luogo di cui tanto avevo letto e sentito. Una visita al mausoleo di famiglia, un giro per il paese, una fotografia al negozio di souvenir nostalgici all’ingresso dell’abitato, un pranzo frugale con le specialità del luogo – crescione e sangiovese – sono bastati per farsi un’idea: su quel luogo pesa una cappa opprimente, fatta di citazioni sfacciate sulle magliette, di simbologie sdoganate, di una presenza turistica morbosa. A quel punto, rapidamente, il primo pensiero balenato in testa è stato di andarsene al più presto.
Tutti gli anni Predappio compare sulle mappe dei giornali in occasione di precise date. Le sfilate si snodano per il paese, dirette ogni volta alla meta prediletta: il mausoleo della famiglia Mussolini. È lì che riposano – dopo incredibili peripezie – i resti del dittatore.
Sepolta dai partigiani, subito dopo Piazzale Loreto, in una tomba senza nome, la salma fu rapita da alcuni fascisti, nascosta alla Certosa di Pavia sotto gli occhi di un priore e di un frate francescano compiacenti, “trattata” poi dagli stessi in un negoziato con lo Stato. Uno di questi era Alberto Parini, il cui fratello Piero fu squadrista e Podestà di Milano. Rinchiuso in un baule, il corpo sarebbe stato restituito alla famiglia dopo lunghe trattative solamente il 30 agosto 1957, quando al governo v’era proprio un predappiese, il democristiano Adone Zoli. La prima scena, attorno al sarcofago, vede Rachele Mussolini attorniata da decine di neofascisti, tutti con il braccio alzato nel saluto romano. Da lì in poi, numerosi pellegrinaggi, tante (e vane) proteste e l’istituzione di un picchettaggio per evitare sfregi alla tomba.
La discesa nella cripta, nel cimitero di San Cassiano, è salutata da una lapide, su cui campeggia una citazione dal libro Vita di Arnaldo: “Sarei grandemente ingenuo se chiedessi di essere lasciato in pace dopo morto. Attorno alle tombe dei capi di quelle grandi trasformazioni, che si chiamano rivoluzioni, non ci può essere pace; ma tutto quello che ho fatto non potrà essere cancellato”.
Scese le scale, un uomo con la pettorina catarifrangente vigila l’altare con il busto del duce. Dei fiori, una candela, un tricolore ed il quaderno delle firme, tra un florilegio di “A noi!” e omaggi vari. Ripulita dai tanti doni portati normalmente dai “pellegrini”, la camera appare spoglia. Ma a colpirmi, ancor più di quel luogo, è ciò che mi aspetta incastrato nella maniglia dell’auto: nemmeno un quarto d’ora, e già mi hanno rifilato un dépliant di Predappio Tricolore, negozio di souvenir (in via Matteotti!). In copertina quello che appare presumibilmente come il proprietario, in due foto a cinquant’anni di distanza. Stessa posa, stesso braccio. E la rivendicazione: “Io non ho tradito!”.
All’interno del pieghevole, una selva di gadget. Le spille con le rune, i gagliardetti coi teschi, i portachiavi coi manganelli. Busti, felpe, bottiglie, accendini, magliette, di tutto e di più, fra citazioni mussoliniane e omaggi al nazismo. C’è pure il caffè, “nero” chiaramente.
Conservo il tutto, un po’ basito, e me ne vado a mangiare un boccone. In piadineria, nei tavoli vicini, una famigliola di nostalgici e un bevitore con la t-shirt della Xª Mas.
Era il 1983 quando il decreto prefettizio che vietava la vendita di souvenir del fascismo è stato abolito. Ora, per le strade del paese, sono tre i negozi specializzati nella vendita di memorabilia e oggetti vari. La legge Fiano li vorrebbe eliminare, ma il suo iter si è arenato. La pandemia sembra non colpirli troppo duramente, anche se i pellegrinaggi hanno subito un calo imposto dai divieti (chissà nell’anno del centenario della “rivoluzione”). Tutto, comunque, può essere comprato online. Scatto una foto veloce, senza scendere dall’auto. Fa caldo e a Predappio, penso, ci sono stato anche troppo.
(Aggiornato al 6 maggio 2022)