L’inventore della tradizione

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Pellegrino Artusi, o meglio “l’Artusi”, continua a essere, più che un autore, un oggetto mitico, scrigno di chissà quali tesori. Libro forse non letto, ma citato, riferimento sapienziale, anche se deposto e disinnescato. E comunque continuamente ristampato, in formati dal gigante al tascabile.

Stiamo parlando naturalmente de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, l’opera che consacrò il suo autore alla storia e alla cultura dell’ancor giovane Italia. Edito a Firenze nel 1891, fu un work in progress, che vide continuamente nuove edizioni accresciute, sino alla quindicesima del 1911; le ricette erano a quel punto passate da 475 a 790.

Non si tratta di un libro di sole ricette. Artusi racconta aneddoti, anche personali. Famosi quello sul minestrone e il colera a Livorno nel 1855, o quello sull’incontro con Felice Orsini in un’osteria bolognese del 1850. Ha scritto Massimo Montanari che il libro è «l’archetipo del blog gastronomico». Artusi dialoga infatti con i lettori, parla degli informatori che gli hanno procurato le ricette. Ci consiglia, ad esempio, su come presentare agli ospiti il risotto alla tinca: la ricetta sarà infatti «grata al gusto, e fors’anche lodata, se avrete la prudenza di non nominare la specie del pesce usato». Ci ammonisce sulla pesantezza dell’anguilla, dato che «la carne di questo pesce, assai delicato e gustoso, riesce alquanto indigesta per la sua soverchia oleosità». Addirittura si preoccupa per l’odore dell’urina dopo che avremo mangiati gli asparagi: «il cattivo odore prodotto dagli sparagi si può convertire in grato olezzo di viola mammola, versando nel vaso da notte alcune gocce di trementina».

Egli è maestro di discrezione e nemico dell’eccessiva codificazione. Le modifiche sono sempre aperte, egli stesso le mette in conto, egli stesso addirittura le propone: tre sono le ricette del risotto alla milanese. La norma c’è, naturalmente, ma non siamo in presenza di una cucina “prescrittiva”.

Ha scritto giustamente Montanari che il suo non è solo un ricettario, ma un «progetto politico»: alla borghesia della nuova Italia si propone un «modello di cucina nazionale costruito sulla base delle tradizioni locali». La cultura del Paese si costruisce anche a partire dalla cucina.

Tutto ciò s’intreccia con la questione della lingua, per la quale Artusi si impegnò affinché fosse «semplice e comprensibile, con una forte patinatura toscana» (Angela Asor Rosa), mediante l’ausilio del suo Rigutini e Fanfani (il Vocabolario italiano della lingua parlata del 1875). Alcuni modi di dire risultano frizzanti e ameni anche oggi al nostro orecchio («Quando è cotto strizzategli sopra del limone e mandatelo al suo destino», dice del baccalà alla bolognese; ma è un detto che torna più volte).

Si è spesso ricordato il ruolo “unificante” di questo libro: «ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare I Promessi Sposi», scrive uno dei suoi più illustri studiosi, Piero Camporesi, che continua: «accanto a Cuore (e aggiungerei anche Pinocchio) è uno dei massimi prodotti della società italiana del secondo Ottocento, una di quelle bibbie popolari che il moderatismo sociale italiano ha espresso per la costruzione di un cittadino fabbricato secondo i postulati dell’etica borghese». Sono osservazioni sottoscrivibili, anche se di recente Alberto Capatti, attento biografo del Nostro, ha un poco “complicato” questo panorama, fatto di tempi e pubblici differenti. Ma ad ogni modo l’Artusi, letterato fin lì fallito (aveva scritto operette sul Foscolo e sul Giusti), si trova ad essere ora in compagnia non solo dei vecchi Manzoni, Pellico e Guerrazzi, ancora prediletti della sonnacchiosa borghesia cittadina, ma anche di De Amicis, Fogazzaro, D’Annunzio, degli onnipresenti Barrili e Rovetta. Lo storico Mario Isnenghi lo pone accanto alla Storia delle letteratura italiana del De Sanctis, oltre che al Cuore, tutti «breviari laici e ghibellini»; gli piacerebbe poter vedere in lui «il Cattaneo delle cucine, federatore dei mangiatori», ma ci sono troppe lacune, c’è poco Sud: insomma, la «sua unificazione è a maglie troppo fitte o troppo larghe», e la sua rimane una cucina fondata fra la Romagna, l’Emilia e Firenze (certo, con diverse aperture).

Pellegrino Artusi era nato a Forlimpopoli, in Romagna, nel 1820, figlio di un droghiere insurrezionalista. Morì a Firenze nel 1911. Si era trasferito in Toscana nel 1852, dopo il trauma subito con l’aggressione della banda di Stefano Pelloni, che aveva saccheggiato la sua casa e violentata la sorella, in seguito impazzita ed internata. Il Pelloni era noto come “il Passatore”, criminale divenuto mito anch’egli, novello Robin Hood cantato poi da Secondo Casadei: «odiato dai signori, amato dalle folle, dei cuori femminili incontrastato re». Ed ora nelle città della Romagna si può mangiare un piatto di passatelli, raccontati e descritti da Artusi, sopra una tovaglietta che ci narra le vicissitudini del Passatore. Il mito scompone, ricompone, unifica, falsifica e anestetizza.

(Aggiornato al 25 febbraio 2025)