Un uomo coi baffetti, Adenoid Hynke, dittatore di Tomania, gioca con un grande pallone a forma di mondo che finisce per scoppiargli tra le mani: è la scena, celebre quanto geniale, di The Great Dictator (1940), primo film parlato di Charlie Chaplin che mette in scena tutta la follia del Terzo Reich e si eleva ad appello potente di democrazia e tolleranza. Sono moltissime le pellicole che raccontano i totalitarismi del Novecento attraverso registri narrativi e generi molto diversi, dalla parodia al dramma, dall’animazione al documentario.
Diversamente dal film di Chaplin, uscito l’anno prima della dichiarazione di guerra al Giappone e dell’entrata degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, il racconto cinematografico dei regimi è spesso successivo alla loro caduta e porta la firma di filmaker che vantano – si fa per dire – uno “ius soli” con il Paese antidemocratico di turno. Uno di questi è Pablo Larraín Matte, esponente di punta del cinema cileno che continua a fare i conti con il passato del regime e la figura di Pinochet.
Secondo di sei fratelli in una delle famiglie più influenti del Cile coloniale – il padre Hernán è stato ministro alla giustizia, senatore e presidente di Unión Demócrata Independiente, partito che sostenne Pinochet nel referendum del 1988, mentre la madre Magdalena, della potentissima famiglia Matte, è un’imprenditrice, coinvolta in uno scandalo di edilizia abitativa mentre era ministra all’urbanistica nel primo governo Piñera –, Pablo ha trascorso l’infanzia in un “barrio” elegante di Santiago e frequentato lo stesso collegio dei nipoti di Pinochet, una scuola di “bambini con l’autista” dove gli insegnarono che “il dittatore era stato obbligato a prendere il potere senza elezioni perché il Paese era in crisi”. Trasferitosi nei quartieri operai della città, “tentando di scomparire” e insieme di capirla meglio, il regista fa della consapevolezza che i suoi “privilegi provengono da un luogo oscuro” la linfa vitale della sua filmografia in cui prova a combattere – con nasi storti e dita puntate da destra e da sinistra – “questa idea che esiste in Cile di cosmeticcizare il passato, di idealizzarlo, metterlo in un vaso di vetro e strutturarlo organicamente in memoria, che è invece molto più disordinata e caotica”.
Il sociologo e scrittore tedesco Ulrich Beck osservava che “cerchiamo la politica nel luogo sbagliato, nei concetti sbagliati, ai piani sbagliati, nelle pagine sbagliate dei quotidiani”. Dovremmo invece cercarla non solo in chi fa la Storia ma nelle storie minimali di chi l’ha subita… e nei film che le raccontano. Nel profilo di un ballerino medriocre (interpretato da Alfredo Castro, talentuoso Al Pacino cileno), un uomo sgradevole che dal sottosuolo in cui vive insegue il sogno americano di essere il miglior sosia di Tony Manero in un Paese in pieno regime, sottosviluppato, violento e anestetizzato dall’intrattenimento televisivo.
Oppure nello sguardo vuoto di Mario Cornejo (sempre Alfredo Castro) che, all’alba dell’11 settembre 1973, vede il tavolo dell’obitorio, dove lavora come impiegato, riempirsi di cadaveri – quei corpi desaparecidos che saranno il principale argomento difensivo per Pinochet –, compreso quello di Salvador Allende in uno dei pochi momenti che distoglie il protagonista dalla sua inedia. O infine nella simpatia contagiosa del pubblicitario Renè (l’attore Gael Garcia Bernal) che partecipa ai 27 giorni di campagna referendaria per il NO alla dittatura più che per impegno politico per sfida personale: la strategia del SÌ è affidata al suo capo e amico Lucho, di nuovo l’attore Alfredo Castro . La sua intuizione vincente – perché mostrare gli orrori della dittatura a un popolo che ne è ormai assuefatto, quando si può vendere la libertà come un sogno di allegria? – avrà forse conquistato anche il cuore nerissimo di Tony Manero.
Sullo sfondo le strade deserte per il coprifuoco militare, il degrado architettonico della città, gli spazi claustrofobici di un tempo disumano, e l’onnipresente industria dello spettacolo che il regista sfida ricorrendo a formati compressi, illuminazione naturale, strumentazioni desuete, in risposta a quella che definisce “la dittatura dell’alta definizione”.
Sono queste le storie che stanno dietro alla (atipica) trilogia sul potere in Cile, sulle colpe di un popolo, sulla propaganda potente in ogni schieramento ideologico: Manero (2008), Post mortem (2010) e No – I giorni dell’Arcobaleno (2012) sono una escalation non cronologica verso la cosiddetta normalità. Che sembra preparare il terreno all’ultimo film del regista, «El Conde» (2023), vincitore a Venezia del premio per la miglior sceneggiatura e già disponibile sulla piattaforma di streaming Netflix.
Il personaggio principale stavolta è Pinochet in persona nei panni di un vampiro di 250 anni (Jaime Vadell; l’attore-feticcio Castro è invece il suo imperscrutabile maggiordomo cosacco). Sanguinario per natura in piena crisi di identità, ossessionato dalla consapevolezza di essere ricordato come un assassino e un ladro, si innamora di una suora esperta in esorcismi assoldata dai suoi figli avidi, gretti e fannulloni. L’impunità che rende un uomo immortale, una chiesa connivente e la voce narrante di una madre-vampira occidentale – niente meno che Margareth Thatcher… una trovata nella trovata! – sono gli ingredienti di una grottesca saga politica che punta il dito sul presente, dritto al timone in mano alle destre estreme.
Perché da una pellicola all’altra, da farsa a horror, da dramma a satira, resta una pulce che si dimena isterica nell’orecchio: rovesciare un potere basta a sradicare il Potere?
(Aggiornato al 27 settembre 2023)