Nell’Archivio della Scrittura Popolare, presso la Fondazione Museo storico del Trentino, sono conservati non solo lettere, cartoline e diari, ma anche una cinquantina di ricettari manoscritti prodotti dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Settanta del Novecento. Sono in gran parte ricettari redatti per uso domestico da donne e ragazze (solo due sono gli scriventi uomini) che non erano avvezze a scrivere e che solo in alcuni casi erano cuoche di professione. È il caso ad esempio di Angelina Andreolli che lavorava come cuoca a Trento per la famiglia di Paolo Oss Mazzurana, industriale e uomo politico. Il suo ricettario presenta una cucina molto varia che doveva rispondere alle esigenze di persone ricche, che ricevevano ospiti in casa.

In queste occasioni venivano preparati piatti elaborati e menù che comprendevano sempre una minestra, due secondi (solitamente entrambi di carne, raramente di pesce accompagnato dalla maionese) con contorno di purè o verdure e uno o due dessert. A dispetto delle origini contadine della cuoca Angelina, il suo ricettario non rispecchia la disponibilità alimentare e gli usi della maggioranza della popolazione trentina dell’epoca.
Questa particolare fonte soggettiva in generale ci dice molto riguardo alla disponibilità di determinati alimenti e, soprattutto nel caso di ricettari compilati nel corso di parecchi anni, testimonia della comparsa di piccole tecnologie moderne, come la moka, la pentola elettrica Petronilla o il forno elettrico.
I ricettari casalinghi invece, composti in un lasso di tempo indefinito da donne di estrazione popolare, sembrano rispecchiare il gusto personale, nonché gli interessi e le necessità delle scriventi. È frequente trovare infatti oltre alle ricette alimentari quelle per preparazioni medicamentose, oppure per fare la colla, le vernici e i saponi.
Quello che i ricettari popolari non dicono però è ciò che si mangiava davvero nelle famiglie trentine.

L’alimentazione quotidiana, nel contesto rurale, era dominata dalla monotonia, era un cibarsi funzionale, ripetitivo e povero che si basava sul consumo dei prodotti che non era più redditizio vendere. Gli studiosi dell’età contemporanea, che hanno potuto avvalersi di fonti orali per la storia dell’alimentazione del Novecento, hanno registrato racconti incentrati sulla scarsità, sia in termini di quantità di cibo che di varietà, durante il periodo precedente la modernizzazione e il boom economico: tutti i giorni minestra, tutti i giorni polenta e tutti gli anni la macellazione del maiale.
Nei ricettari popolari non si trova nulla che rimandi a questi alimenti, a queste preparazioni. Mancano proprio quei cibi che sappiamo essere stati i più comuni: non è mai nominata la polenta, le ricette con le patate e le verdure sono poche e molto elaborate, non si trova la ricetta per un semplice minestrone ma solo per minestre ricche e complesse, così come non si trovano crauti e carne di maiale.

La scrittura nel mondo contadino è un evento eccezionale e dedicato all’eccezionalità. Le ricette di tutti i giorni venivano tramandate per consuetudine, ripetute in maniera meccanica, ed è comprensibile che non si sentisse la necessità di dedicare tempo e fatica per metterle su carta. Scrivere una ricetta presuppone uno sforzo non indifferente: bisogna rispettare una struttura logica, identificare e nominare correttamente gli alimenti, definire quantità, pesi e misure, indicare la corretta sequenza dei passaggi. Il livello di precisione, di dimestichezza e di padronanza della scrittura e della lingua variano a seconda dell’istruzione di chi scrive ma generalmente la forma viene rispettata e anche la lingua riesce controllata, seppure i tentativi di italianizzare termini del dialetto a volte non siano del tutto comprensibili. Si capisce dunque come tutto questo impegno venisse riservato all’annotazione di ricette eccentriche rispetto alla quotidianità, piatti magari assaggiati una volta sola, ricette “della festa” appuntate per essere replicate in un’occasione speciale. La quantità delle ricette trascritte messa in relazione con le, probabilmente poche, occasioni di festa per una famiglia contadina ci fanno sospettare che la maggior parte di questi cibi non siano mai stati davvero cucinati.

Le ricette hanno origini diverse: il passaparola, i giornali, i libri prestati. Si nota anche un gusto di tipo collezionistico nel raccogliere tante varianti della stessa ricetta. Insomma, questi ricettari possono essere letti come liste dei desideri. E in quest’ottica ben si comprende la sovrabbondanza di preparazioni dolci, la portata per eccellenza della festa e dell’eccezionalità.
Un ricettario che esemplifica bene gli aspetti qui messi in luce è quello della famiglia Ossana di Coredo, in val di Non. Il ricettario non è datato ma è collocabile nella prima metà del Novecento e vi scrivono mani diverse che annotano ricette dolci e salate. Prevalgono nettamente i dolci, caratterizzati dalla presenza di frutta secca, zucchero in quantità incomprensibili per il gusto moderno e tantissime uova: torta di mandorle, budino di noci, torta di ciliegie, torta di noci, pasta fritta, “rufioli” (una sorta di ravioli ripieni di marmellata detta “conserva”), torta di frutta, “basini” di cioccolata; ci sono preparazioni note come il pan di spagna, i savoiardi e le spumiglie mentre altre rimangono misteriose come il “budino di rossi d’uovo” oppure il “budino d’uova dure”, un dolce al cucchiaio con sette tuorli di uova sode uniti ad altri otto crudi sbattuti assieme a burro, zucchero e mandorle ridotte in polvere.
I ricettari quindi non ci diranno esattamente cosa si metteva in tavola in Trentino un secolo fa; ci raccontano però dei desideri, dei contatti fra le persone e dei significati culturali che il cibo metteva in atto.
(Aggiornato al 25 febbraio 2025)